Disclaimer: non parlerò degli Anonymous che hackerano siti prestigiosissimi come quello di Sgarbi e se la menano con roba anacronistica come “We Are Legion, expect us” e sticazzi, mio cuggino che è giornalista mi ha detto che bisogna sempre scrivere titoli che non c’entrano una fava col contenuto.
Quando non usiamo internet per cercare su google se “cosiddetto” si scrive con due d o una sola, per scandagliare pornografia più o meno abominevole o come surrogato del televideo per le partite sportive, sul web capita spesso di interagire con delle altre persone. Solo che internet consentiva di non doverci mettere non solo la faccia, ma neppure il nome. Poi, vabbè, è arrivato Facebook. Solo che oggi la gente sta riscoprendo il piacere dello scrivere (cazzate) da anonimi. Che cazzo di senso ha tutto ciò? Beh, per scoprirlo dobbiamo fare qualche passo indietro nel recente ma nefasto passato della rete.
Ai tempi gloriosi (agli occhi del nostalgico) dei primi forum dove si discuteva quale fosse il Final Fantasy migliore (e il dibattito non è cessato, come puoi vedere qui), si tentava maldestramente di broccolare le rarissime ragazze (o supposte tali) e si scrivevano cazzate per il gusto di aumentare il numero dei post, solo un pazzo si sarebbe iscritto col suo nome e cognome o avrebbe messo la sua foto come avatar. Molto più comuni invece i Tetsuo82, i Vash_The_Stampede o i SolidSnakeMGS. L’identità che sceglievamo di avere in queste comunità digitali era arbitraria, costruita, modellata più su un’immagine idealizzata di noi stessi che su quella reale. Un po’ come gli status copia-incollati o le foto ritoccate di Facebook, se ci pensate. Però, a differenza dell’internet di oggi, il bisogno di auto-glorificazione non era legato a doppio filo alla nostra faccia e al nostro nome. La connessione tra quell’accozzaglia di bit dell’account e la nostra identità reale era spesso mediata dalla sola password. Sui forum non c’erano cugini rompicoglioni o bulletti del quartiere a cui rendere conto. Billy Corgan cantava “I wanted more than life could ever grant me, bored by the chore of saving face”; beh, avevamo finalmente trovato una “vita” virtuale che ci potesse garantire davvero quello che volevamo, perché non c’era nessuna faccia da salvare. Su internet, tanti introversi e impacciati hanno per la prima volta potuto essere se stessi.
Però l’identità delle comunità online pre-social web, pur fittizia, era pur sempre un’identità, sconnessa da quella fisica ma legata comunque ai contenuti che scrivevamo. Il passo successivo, e di portata rivoluzionaria, verso l’anonimità lo fecero le imageboard nei primi anni ‘2000 e soprattutto durante il loro periodo di vasta diffusione nella fine di quel decennio. Su 4chan e sulle sue “sorelle” meno note infatti viene a mancare del tutto il legame tra “testo” e autore; si potrebbe pensare che ciò porti appunto tutta l’attenzione sul contenuto e non su chi l’ha scritto, risultando così estremamente democratico (inb4 Grillo). In teoria, il vero anonimato di 4chan dovrebbe spingerci ad essere davvero noi stessi invece che una versione idealizzata di quelli che vorremmo essere agli occhi del nostro pubblico, e a volte è così, ma capita più di frequente che il mancato vincolo a un’identità anche fittizia venga usato più che altro allo scopo di trollare gli altri anonimi. Beh, non sarebbe 4chan altrimenti, no?
Negli stessi anni in cui 4chan diventa sempre più influente, prende però sempre più piede il fenomeno contrario: si sparge il morbo dei social network, siti che fanno della connessione con l’identità reale la loro killer application. Facebook, in particolare, non solo associa un nome a una faccia, ma di fatto lo connette alle 200 foto che hai caricato del tuo weekend a venezia (per non parlare di quelle che ti fanno gli “amici). Ma non finisce qui: i tuoi contatti possono tranquillamente venire a sapere che sei fan delle Hogan, che giochi a cagate tipo Farmville, che la scorsa sera che ti sei finto malato in realtà sei stato geolocalizzato a Codroipo e che commenti sul gruppo dei single di Imola scrivendo “ciao k chatta? pls respond”. Facebook, dal nome stesso, nasce per farti spiattellare un sacco di informazioni su di te a chiunque ne voglia farne uso per diabolici piani di conquista del mondo o, peggio, per strategie di marketing. Quello che di fatto succede è che la gente si illude di poter creare un’immagine idealizzata di sé, passando ore a selezionare la foto di profilo o condividendo citazioni di Coelho, ignorando che quello che di fatto la gente vede è l’amicizia con il profilo “Pablita Trans Perugia” e le foto del cugino Clodoveo a Gabicce Mare dov’eri in botta durissima.
Forse è per questo motivo che molte persone, arrivate all’età della ragione (18, 25, 48 anni o mai, a seconda dei casi), usano sempre meno Facebook, se non per continuare a farsi i cazzi degli altri. E forse è proprio per questo motivo che dal tardo 2012 a oggi nel panorama dell’internet italiano impazza la moda dell’anonimato. Non si parla, ovviamente, dei chan, ma di siti dal fascino mainstream come Insegreto o addirittura da pagine di Facebook come le famigerate Spotted. Su Insegreto chiunque può scrivere la sua cazzata da anonimo, quindi puoi confessare di quella volta che hai scatarrato nella boccetta di shampoo di tuo fratello o, meglio, causare ulteriori danni al tessuto socio-economico italiano sputtanando i tuoi pomeriggi in ufficio a spiare morbosamente storie più o meno inverosimili (e più o meno farlocche) scritte dall’anonimo di turno (ne ha già parlato il nostro psicologo di fiducia in questo articolo). Ancora più clamore hanno suscitato le pagine Spotted, fenomeno originariamente universitario (si sa che gli universitari hanno voglia di scopare e di perdere tempo) in cui chiunque può scrivere la sua brava stronzata agli admin che poi la pubblicano sulla pagina rispettando il principio di anonimato. Queste pagine, dove fuoricorso troppo sfigati per approcciare le squinzie di persona tentano di allungare i propri tentacoli digitali o, più spesso, dove congreghe di guasconi organizzano scherzoni troppo pazzi, hanno un pregio grandissimo: non mi fanno rimpiangere di aver finito l’università. Lo stesso meccanismo della pseudo-anonimato è quello che ha decretato il successo delle varie pagine “X di merda”, che sono già state sviscerate qui.
Ecco, se avete seguito i miei brillanti ragionamenti, ora converrete con me che nelle relazioni sociali su internet si è passato dalle identità fittizie al vero anonimato (per una nicchia) e all’identità reale (per la stragrande maggioranza), per poi arrivare alla riscoperta del fascino dell’anonimato (o presunto tale). Il fatto è che gli stessi che fino a poco fa hanno iniziato a usare internet proprio perché potevano chattare e scambiarsi i mi piace con la Francy e la Cate si stanno pian piano rendendo conto di quanto può essere divertente accantonare per un attimo la nostra identità reale. Che conseguenza può avere tutto ciò, io non vi saprei dire, e comunque non ho voglia di pensarci adesso; vi saluto che devo crearmi un paio di altri fake su Facebook.
11 Febbraio 2013
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