Il mese di settembre è quello in cui si torna dalle ferie e si ricomincia a studiare, a fatturare e ad essere tristi e riflessivi. Per questo motivo noi di IMDI non potevamo esimerci dal consigliarvi un po’ di dischi decisamente a tema.
A distanza di un anno dal loro ultimo lavoro, “Star Wars”, i Wilco escono con questo SCHMILCO che sorprende con un altro cambio di sonorità. La band di Jeff Tweedy, dopo vent’anni di carriera, si diverte ancora una volta a mescolare le influenze più disparate: dai Beatles a Elliot Smith senza tralasciare la sperimentazione, con le derive quasi noise di Common Sense. Il tutto porta a un disco che non ha etichette, con più anime, che segnala un unicum nella discografia del gruppo. Non mancano gli stilemi tipici dei Wilco, ovviamente: una certa malinconia, per esempio, che si fa notare nel pezzo migliore di questo lavoro: “Cry All Day”, il cui titolo e testo lasciano poco all’immaginazione. Allo stesso tempo, però, mostrano una certa ironia: “We Aren’t The World (Safety Girl)” è una parodia del singolo di beneficenza scritto da Michael Jackson e Quincy Jones, il celeberrimo “We Are The World”.
In quello che può essere definito un vero e proprio pessimismo ottimista, i Wilco riescono a mostrarsi malinconici e a risultare credibili, nonostante vi siano dei momenti molto più leggeri di altri.
Altro punto a favore è la ricchezza dei testi, uno dei temi cardine è l’infanzia e la nostalgia verso questo importante periodo della vita di ogni persona, tema che viene sviluppato e ripreso in canzoni come “If I Ever Was A Child”, “Normal American Kids” e “Happiness”. La stessa cover, disegnata dal caustico Joan Cornellà, si rifa alle tematiche di questo disco, confermando ancora una volta lo stile cinico che lo ha reso tra i più apprezzati sul web. Un album ottimo che conferma la crescita di questo gruppo che viaggia tra folk, rock e sperimentazione.
(Gianni Giovannelli)
Il 16 settembre I Die Antwoord hanno fatto uscire il loro quarto lavoro in studio dei 5 che, a detta del gruppo, costituiranno l’eredità completa che gli artisti sudafricani vogliono lasciare al mondo. A questo giro il duo si affianca a DJ Hi-Tek e DJ Muggs (beatmaker storico dei Cypress Hills), i quali cambiano nome per l’occasione: rispettivamente sono GOD e The Black Goat. In questo album il duo è nel bel mezzo di una crescita sia interiore che artistica: Ninja comincia ad abbandonare il suo tipico, fortissimo accento per far sentire finalmente un po’ la sua vera voce mentre Yolandi prova a lasciarsi dietro la sua immagine di eroina “tosta” per aprirsi e parlare delle proprie debolezze e traumi nei brani “Darkling” e “Alien”. Anche da un punto di vista sonoro si cimentano in cose di certo non nuove nell’ambiente ma comunque novità per il gruppo, con la presenza di basi trap e uno stile canoro più naturale. Parecchie collaborazioni degne di nota, fra cui Sen Dog, Jack Black e Dita Von Tesse, che aggiungono la giusta varietà che altrimenti sarebbe mancata.
A conti fatti, comunque, esser stato scritto e registrato nel bel mezzo di un momento di evoluzione non ha giovato a questo disco, che non ha l’energia e l’aggressività dei suoi predecessori e non riesce tuttavia ad abbandonare completamente il culto dello Zef, mancando così la possibilità di diventare un album più intellettuale e intimista. Il prodotto finale risulta insicuro della sua identità, andando a rispecchiare il momento di transizione che il duo sudafricano sta vivendo. Nonostante questo, presenta comunque alcuni brani e idee interessanti, che danno buone speranze per il prossimo e (ufficialmente) ultimo lavoro dei Die Antwoord, che si spera ce li presenti ormai alla fine della loro evoluzione.
(Marco Meloni)
I Bastille tornano dopo 4 anni (e qualche sideproject) sulla scena pop mondiale con il loro secondo lp. Conosciuti anche come “quelli di Pompei”, dopo un album di debutto che aveva sconvolto le classifiche internazionali, il gruppo londinese aveva addosso gli occhi e le orecchie di tutto i loro fan per questo nuovo disco, e tale aspettativa poteva essere talmente grande da trasformarsi in una cocente delusione dopo il rilascio. Per fortuna siamo qui per raccontarvi una storia con un lieto fine. Diciamolo subito, l’album risulta meno sperimentale rispetto a quello che si è sentito nel primo disco, ma “meno sperimentale” non significa certo meno originale. La band capitanata da Dan Smith si è avventurata in una produzione con un beat discretamente più alto rispetto a quella del primo lp, ma lascia comunque spazio a pop ballad un po’ più lente e introspettive. La varietà di certo non manca, e non è un’esagerazione affermare che ce n’è davvero per tutti i gusti: da brani con melodie spensierate come “Good Grief” e “Snakes” a pezzi più intensi come “Fake It” e “Winter of Our Youth”. Un ritorno in grande stile e un album che non può mancare nel vostro repertorio.
(Samuele Raffa)
Era il 14 luglio 2015 quando Arthur Cave, figlio quindicenne del cantante australiano Nick Cave, è morto dopo essere caduto da una scogliera a Brighton: è attorno a questo tragico episodio che nasce l’ultimo album di Nick Cave assieme ai suoi Bad Seeds, Skeleton Tree. Il dolore provato da Cave è nitido e si propaga in tutti i brani del disco, anche se il drammatico accaduto è avvenuto durante la lavorazione dell’album e non prima. La realizzazione di Skeleton Tree viene descritta nel documentario presentato alla mostra del cinema di Venezia One More Time with Feeling, in cui viene mostrato come Cave abbia reagito al traumatico evento e cosa in lui sia cambiato.
Skeleton Tree si apre con la cruda Jesus Alone, in cui Cave non canta, ma si rivolge con tono elegiaco a vari personaggi diversi (fra cui il figlio?) senza apparenti legami fra loro. La parte strumentale, ridotta a batteria, pianoforte, archi e droni noise, ricalca la sensazione di angoscia e sofferenza della voce di Cave. Tutti i brani del disco prendono più o meno questa forma, avvicinandosi sia per tematiche che per stile musicale a Black Star di David Bowie, uscito nel gennaio scorso. “All the things we love, we love, we love, we lose” è il lamento di Cave in Anthrocene, in preda allo sconforto più totale ed ancora traumatizzato per la tragedia avvenuta. In Skeleton Tree Cave, prima di essere un musicista, è un padre che ha perso un figlio e che non riesce più a cogliere la gioia della vita. Solo nel finale della title-track, ultimo brano del disco, sembra comparire un messaggio di speranza: “I called out that nothing is for free/And it’s all right now”. Come un invito a vivere la vita e ad apprezzarne i lati positivi che spesso si danno per scontati.
(Vittorio Comand)
Isaiah Rashad, a due anni dal precedente Cilvia, ha risolto i suoi problemi con l’alcolismo e ha imparato a gestire le sue ansie, a descriverle in maniera lucidissima e a farne un disco solido che può tranquillamente aspirare a piazzarsi tra le uscite più rilevanti dell’anno. Non appena il sax e le tastiere iniziano a suonare “4 Da Squaw”, la delivery pastosa, stonata del rapper di Chattanooga si fa notare e rimane per l’intera durata del disco: questa si rivela essere infatti uno strumento efficacissimo per raccontarci i problemi di dipendenza che lo hanno recentemente afflitto. Ben ventuno produttori su diciassette brani; nonostante questo, il disco è coeso a livello sonoro, quasi come fosse il lavoro di un solo produttore.
Il risultato è un disco coinvolgente, immersivo che a differenza del free jazz di To Pimp A Butterfly (disco del compagno di scuderia Kendrick Lamar) è contaminato dal lato più cool del genere, con una sorta di suspense sempre lì presente che sembra quasi voler sottolineare la tensione interiore che le paranoie generano in chi vive costantemente sotto l’abuso di droghe. Per spessore e sonorità, The Sun’s Tirade è il disco perfetto da ascoltare in questo autunno. Nel frattempo, bisogna restare ben attenti, in attesa di ciò che potrà combinare Isaiah Rashad ora che non ha più un problema con l’alcol ed è stato in grado di esorcizzare così bene i suoi problemi. Capace di citare i classici della Golden Era come gli ATCQ e gli Outkast senza la paura di mettersi in gioco, anche questo membro della TDE è promosso a pieni voti.
(Raffaele Lauretti)
30 Maggio 2017
22 Maggio 2017
16 Maggio 2017
4 Maggio 2017
6 Aprile 2017
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