Con Tolkien ho avuto un rapporto tormentato.
TANTO.
A 11 anni cerco di leggere “Lo hobbit” la prima volta. Arrivo all’uccisione di Smaug, crollo esausto, la prosa di Tolkien non fa per me. Arrivo stremato ad un passo dalla fine, mollando il colpo e arrendendomi.
Seguono altri anni e altri tentativi: di nuovo, Bard dichiarava il suo amore alla Freccia Nera (potrebbe venirne fuori una fan fiction omoerotica con un personaggio Marvel) e accoppava l’antenato di Grisù il draghetto. Al che inspiegabilmente il libro di Tolkien decollava dalle mie mani e finiva contro una parete.
Nel frattempo escono i film di Peter Jackson, scopro che c’è un collegamento con “Lo hobbit”. Apprezzo certe cose, alcune cose mi esaltano, nonostante la durata il ritmo è buono.
Negli anni che seguono si susseguono almeno tre, quattro tentativi di leggere la trilogia. Il problema è sinistramente simile a quello avuto con “Lo hobbit”: arrivo a pagina 228 e mi rendo conto che i quattro stronzi non sono ancora usciti dalla Contea e non hanno ancora nemmeno incontrato Aragorn. Però sono state dedicate pagine a canzoncine varie e due interi capitoli a Tom Bombadil.
L’ultimo tentativo risale a tre anni fa. Negli ultimi 13 anni sono cambiate un po’ di cose: una maggiore apertura mentale, una maggiore cultura e tante, tante letture in più alle spalle. Non vi ammorberò con la classica descrizione masturbatoria di quanto siano fighi i libri letti, vi basti sapere che la fiction letteraria mi piace molto in praticamente tutte le sue forme.
Ed è per questo che solo ora mi sono reso conto che Tolkien è un autore con cui o è amore a prima vista o c’è bisogno di farci un callo bello grosso. Finalmente ho letto “Lo hobbit” in una sola settimana, apprezzandolo molto. E ora sto divorando la trilogia, ho superato da un pezzo lo scoglio di pagina 228 e non voglio smettere.
Che cosa è cambiato?
Mi sono reso conto che per me contano solo due cose in ambito di fiction letteraria (ma anche cinematografica, videoludica, fumettistica, etc.):
1) L’immedesimazione
2) La “teoria dell’acquario”
L’IMMEDESIMAZIONE
Partendo dal primo punto: per poter apprezzare una storia, è fondamentale che io possa immedesimarmi nei personaggi o anche solo esserne affascinato. L’immedesimazione avviene sia a livello empatico (nel senso che capisci cosa provano i personaggi e partecipi alle loro vicende sul piano emotivo) sia a livello di ispirazione (nel senso che un personaggio può essere sì distante sul piano emotivo, ma le sue caratteristiche lo rendono un modello ideale a cui aspirare). Il processo ovviamente diventa sempre più difficile man mano che il racconto si allontana da una realtà familiare: non è un caso se io mi sono affezionato prima alla fantascienza (forte delle sue basi scientifiche gustosamente “distorte”), poi al fantasy di J.K. Rowling, poi ai libri di Martin e soltanto di recente a Tolkien.
Dopo anni di letture varie mi sono reso conto che i protagonisti de “Lo hobbit” e della trilogia mostrano il percorso di crescita più umano e di facile immedesimazione di tutti, al netto di ambientazioni particolarmente fantastiche. Bilbo e Frodo sono due persone paciose e abitudinarie che di punto in bianco si ritrovano a dover fare i conti con vicende più grandi di loro, esperienza che li porterà a crescere e maturare. Il fatto che siano due Hobbit che si aggirano per Arda non è un problema, perché credo che ogni lettore almeno una volta si sia trovato in una situazione del genere: quante volte capita di ricevere tra capo e collo un evento ENORME, assolutamente non calcolato che ti scombina tutti i piani? E’ quello che succede ai Baggins e sotto questa luce simpatizzare con loro mi diventa molto più semplice. Empatia allo stato puro.
Gli altri personaggi da parte loro, sono più distanti dal lettore sul piano emotivo, ma il fascino (e l’immedesimazione per ispirazione) di Grampasso, Gimli, Legolas, Gandalf, etc. risiede nella loro dimensione epica. Forza, nobiltà, saggezza, astuzia, intelligenza: chi non ha mai aspirato a qualità del genere? Io adoro il personaggio di Gandalf: non mi ritengo saggio, non mi ritengo serio, non mi ritengo così paziente o così tollerante… Ma aspiro a queste qualità.
TEORIA DELL’ACQUARIO
Quanto alla “teoria dell’acquario”, ho scoperto della sua esistenza leggendo una recensione di un discreto film di fantascienza. Sintetizzando, la dimensione narrativa deve essere sempre coerente, deve crearsi una sorta di economia interna autosufficiente in cui se succede “C” è perché prima sono successi “A” e “B” (magari in ordine sparso), che non crei sospensioni o momenti in cui l’unica spiegazione a qualcosa è “perché sì”. Ovviamente più ci si allontana dalla realtà, più viene difficile capire se il mondo narrativo in cui ti trovi ha dei confini precisi o meno, ma uno scrittore capace dovrebbe tenerlo sempre a mente. E’ anche un discorso di onestà dell’autore: raccontami una storia, ma soprattutto, fammici credere sul serio. E -no!- col cazzo che vale dire cose “eh la fantasia, la magia, la sospensione all’incredulità”: sono cose che accetto unicamente se calate in un contesto che le preveda sin dall’inizio.
Solo ora mi sono reso conto di come Tolkien abbia sempre mantenuto una forte coerenza interna nei suoi lavori . Da questo punto di vista “Il Silmarillion” è un autentico capolavoro: l’acquario messo in piedi dall’autore è enorme, ma i confini ci sono e sono ben delineati. Per esempio anche quando si parla di esseri divini il loro ruolo è comunque delimitato e coerente col resto, la natura divina/magica/immortale viene inserita come punto di partenza di base e non come giustificazione quando servono spiegazioni spicce. E’ un universo complesso, ma sempre coerente con le sue stesse regole. Certo, non credo che nel 2014 valga ancora il discorso ritenuto inconfutabile “eh ma Tolkien ha creato un intero mondo, non come [INSERIRE AUTORE CHE GENERA BUTTHURT]”, visto che anche chiaviche come Paolini riescono a farlo, ma è innegabile il ruolo di pioniere detenuto dal buon vecchio J.R.R., la sua originalità per l’epoca, la cura certosina per i dettagli.
Discorso a parte invece richiede lo stile di scrittura di Tolkien: ripeto, è un autore impegnativo. Normalmente il primo scoglio sono le descrizioni, particolarmente lunghe e verbose, ma una volta che il lettore ci si abitua, esse si rivelano sorprendentemente scorrevoli e permettono di calarsi meglio nella storia, diventando utili per memorizzare visivamente luoghi e personaggi. Non è una cosa immediatamente superabile, ma diventano piuttosto godibili, una volta compresa la loro funzione “immersiva”.
I volatili per diabetici iniziano con un altro famigerato elemento Tolkeniano: le digressioni. Canzoni, genealogie e certi personaggi secondari serviranno anche a rendere ulteriormente più ricco e complesso il mondo di Arda… Ma non mi interessano, occupano solo tempo e pagine prima del proseguimento della trama principale. Il rimedio? Accelero la lettura (no, non salto, quello no, diciamo che mi concentro di meno)
Non mi viene da dire altro per quanto riguarda Tolkien visto con gli occhi di un “lettore casuale”. Se avete esigenze narrative simili alle mie (immedesimazione e coerenza) e avete avuto anche voi problemi con la sua prosa (descrizioni e digressioni), spero di avervi dato un buono spunto per poterlo apprezzare.
Aprirei ora una piccola parte dedicata ai film tratti dalle opere di Tolkien, nella fattispecie i lavori di Ralph Bakshi e di Peter Jackson.
I discorsi “gnnnnnn il libro é trrp + meglio del film!” non li considero nemmeno: il medium cinematografico richiede tempi e modalità di fruizione diverse rispetto a quello letterario. Di conseguenza certi cambiamenti sono fisiologici (alcuni personaggi tagliati, certe parti accelerate), altri sono più dovuti a meccanismi di produzione (inserimento di personaggi o sequenze inedite) o al gusto del regista.
L’approccio di Bakshi consisteva in una sintesi mirabile tra epica, fiaba e racconto adatto a tutte le età (ricordiamo che Bakshi fu uno dei primi a suggerire in Occidente di indirizzare i cartoni animati anche ad un pubblico adulto) perfetto per narrare visivamente l’epopea di Tolkien.
Jackson invece ha utilizzato e utilizza tuttora un linguaggio più moderno e “all’americana”: il risultato, la trilogia uscita tra il 2001 e il 2003, secondo me è un ottimo prodotto di intrattenimento. L’estetica è molto spettacolarizzata e molti (forse troppi) sono i momenti drammatici, ma Jackson è un regista attento tanto all’aspetto visivo quanto a quello narrativo quando si impegna, il che garantisce un ritmo relativamente sostenuto e dei memorabili colpi d’occhio, cosa non da poco per tre film da tre ore e mezza l’uno.
I problemi invece iniziano col progetto cinematografico dedicato a “Lo hobbit”: il difetto non è Tauriel, non è Legolas, non sono i collegamenti alla trilogia… Il difetto è che “Lo hobbit” come materiale di partenza è perfetto per due film, non di più. Farne un’altra trilogia, pur a causa di comprensibili motivazioni economiche, è una cazzata, perché l’equilibrio tra epicità e ritmo della trilogia filmica de “Il signore degli anelli” va a farsi fottere e ci ritroviamo con due film che alternano momenti decisamente entusiasmanti a momenti che sono riempitivi molesti. Il secondo film in particolare: è un’unica montagna (solitaria?) di fillers buoni soltanto per arrivare a Bosco Atro e al maestoso, indimenticabile incontro con Smaug (anche se le scene d’azione che seguono contengono un po’ troppi buchi logici per i miei gusti, per quanto bellissime da vedere).
Questo è quanto. Non pretendo di riscoprire l’acqua calda parlando di J.R.R. Tolkien e dei relativi libri e film, voglio soltanto proporre una chiave di lettura più a misura d’uomo e meno di nerd filologo. Vista la soddisfazione che mi sta dando la riscoperta dell’epopea di Bilbo, Frodo, Gandalf e compagnie varie (ringraziando un sacco i miei amici E.I. e M.B. per avermi messo la pulce nell’orecchio), spero che qualche altro lettore/spettatore come me, appassionato di fiction, ma poco ferrato sul fantasy, possa trarne diletto. Basta solo un po’ di impegno.
Non molto tempo fa uno studente specializzando operante a Milano venne ingiustamente condannato da un tribunale militare. Evaso da un carcere di massima sicurezza iniziò a spacciarsi per studente Erasmus. E' tuttora ricercato, ma se Spina, Frullo e Weber hanno un argomento di nicchia che interessa a quattro gatti, forse, ogni tanto, ingaggiano il famigerato... COLIN FARTH.
2 Ottobre 2016
6 Agosto 2015
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