“Ha la voce più perfetta del mondo, anzi è senza dubbio il miglior cantante del mondo.“
Così disse di lui Elvis. Il 23 aprile del 1936 a Vernon, in Texas, nasce Roy Kelton Orbison e con lui ha inizio una delle parentesi più toccanti e maledette della storia della musica del ‘900. “The Big O”, così come veniva soprannominato, un po’ per la sua faccia paffutella da bravo ragazzo e un po’ per la sua voce cosi limpida quasi fanciullesca, al primo impatto sembrava avere il classico fisic du role scanzonato dei cantanti delle precedenti decadi. Ma così non era. La sua voce, incantevole già di per sé, tesseva con raffinata ricercatezza stilistica atmosfere uniche legate a testi sognanti, per lo più malinconici.
Il suo approccio alla musica risale al 1942 quando ricevette la sua prima chitarra che suonò per proprio conto fino alle scuole superiori, dove formò la sua prima band, gli Wink Westerners. Come la maggior parte dei ragazzi dell’epoca in Texas, le sue influenze erano incentrate sulla musica country, di cui gli Wink Westerners proponevano dei classici insieme ad alcuni brani di Glenn Miller. Poi qualche anno più tardi ci fu la svolta: tre dei precedenti membri del gruppo lasciarono il posto a due nuovi musicisti, la band prese così una direzione più precisa e con la nuova formazione, chiamata Teen Kings, Orbison e compagni si fecero notare da Johnny Cash, che li segnalò alla Sun Records, la quale a sua volta li ingaggiò. Con la Sun Records, affermata etichetta rockabilly di cui facevano parte tra gli altri Elvis Presley, Jerry Lee Lewis e il succitato Johnny Cash, incisero il loro primo successo Ooby Dooby (in seguito ripreso dai Creedence Clearwater Revival) dopo il quale però i Teen Kings si sciolsero, nonostante avesse venduto 200.000 copie.
Era il 1957 e ormai stabilitosi a Memphis, Roy chiese a Claudette Frady allora sedicenne di trasferirsi con lui (nella casa del produttore della Sun Records, Sam Philips) e poco dopo si sposarono. Claudette incarnò per Orbison l’immagine della musa ispiratrice, la sua vita fu condizionata in ogni istante dalla sua figura e dall’amore che per lei provava nella buona e nella cattiva sorte e dal quale scaturirono canzoni dall’enorme carica emotiva destinate a diventare indelebili negli anni, come Only The Lonely.
Only The Lonely, frutto della collaborazione con il cantautore Joe Melson, diede il successo planetario al ventiquattrenne Orbison, raggiungendo la posizione numero due nella Billboard Top 100 e la numero uno nelle classifiche inglesi e australiane, ma soprattutto delineò in maniera decisa i contorni della sua musica. Molti sostengono che questa fu la prima ballad della storia e probabilmente non si discostano molto dalla realtà.
In rapida successione, The Big O scrisse canzoni meravigliose come In Dreams, Crying, Running Scared e It’s Over. Andò in tour con i Beatles in Europa, con i Beach Boys negli USA e con I Rolling Stones in Australia, stringendo amicizia con John Lennon e soprattutto con George Harrison. Orbison era ormai diventato un’ icona, l’antidivo per eccellenza: la sua pacatezza, i suoi modi gentili e la sua timidezza si scostavano in modo così netto dal suo talento cristallino e dall’enorme successo che portava dietro di sé, tanto da renderlo un personaggio unico nel panorama musicale dell’epoca. Poco più tardi, nel 1964 la definitiva consacrazione arrivò col pezzo che lo rese immortale Oh, Pretty Woman.
L’ idea per il brano gli venne, come spesso accadeva, parlando con Claudette, che alla domanda se avesse soldi per fare ritorno a Nashville lei rispose: “Pretty woman never needs any money“. Da lì in avanti è storia. Nel giro di 40 minuti Roy scrisse Oh, Pretty Woman, che arrivò al primo posto nelle classifiche di tutto il mondo, in particolare restando per ben 14 settimane in classifica generale negli USA e 18 in Inghilterra, collezionando cosi in totale 7 milioni di copie vendute.
Tutto sembrava andare nel migliore dei modi ma l’idillio di Roy Orbison, al culmine del successo, stava per infrangersi in un turbinio di eventi che misero a dura prova l’uomo ancor prima che l’artista, condizionandone l’intera esistenza. Lui e la moglie Claudette divorziarono nel novembre del 1964 e Orbison finì per cadere in uno stato di profonda depressione, dalla quale non sembrava riuscire ad emergere e che lo spinse a chiudersi in se stesso. Così andò avanti fino al 1966, quando i due tornarono di nuovo insieme finendo per risposarsi, ma questa volta il lieto fine gli fu negato dal destino: la donna che aveva sempre amato fin da ragazzo, dopo appena un paio di mesi dalle seconde nozze, morì in un incidente stradale mentre stavano percorrendo in moto, grande passione di entrambi, la strada che li portava da Bristol alla loro casa. L’ incidente distrusse Orbison e la sua vita, lasciandolo solo con tre figli.
Nel frattempo le tendenze cambiarono repentinamente, il mondo musicale viveva un’ aria di fermento come mai aveva vissuto prima e il rock ‘n’ roll toccante del cantautore texano sembrava ormai aver detto tutto ciò che aveva da dire, ma Orbison, noncurante di tutto ciò, nel 1967 scrisse una delle più belle canzoni d’amore di tutta la sua discografia: She, un bacio d’addio a Claudette toccante e introspettiva come mai.
Nel 1968, Orbison cercava affannosamente di rimettere insieme i tasselli della sua vita e riprendersi dal lutto, ma il destino quando ci si mette sa essere davvero spietato: la casa di Nashville dove viveva Orbison andò in fiamme, portandosi via due dei suoi figli. Roy Orbison in quel difficile periodo conobbe Barbara Jakobs che sposò nel 1969, con cui ebbe due figli e a cui rimase legato per tutto il resto della sua vita.
Un idolo dei primi anni sessanta che suonava ancora ballad a cavallo tra il periodo che va dall’esplosione progressive e il punk, con un look demodé e anche visibilmente a corto di spunti, quante possibilità poteva avere di resistere ai 70’s? Nessuna.
Gli anni ’70 furono un periodo nero per la carriera di Orbison, troppo giovane per i vecchi e troppo vecchio per i giovani, con una discografia, seppur bella, superata e con una grinta che, per quanto ce la mettesse tutta, non era più quella di una volta, consumata dalle disavventure della sua vita. Perciò il successivo decennio lo passò senza riuscire a tirar fuori neanche un lavoro degno dell’Orbison che aveva calcato i palchi di mezzo mondo con le sue hit. Gli anni ’80 furono però tutta un’altra storia ed avevano in serbo grandi sorprese.
Don McLean, come spesso capitò durante la carriera di Orbison, fece una cover di una sua canzone, Crying. Poco dopo, i Van Halen replicarono con la celebre cover di Oh, Pretty Woman: entrambe finirono in classifica dando nuova verve e lucentezza alla figura del cantautore texano che, in Europa in particolar modo, ma anche negli USA, aveva comunque mantenuto un certo fascino. Nel 1987 uscì un suo Greatest Hits e due suoi brani vennero inseriti nelle colonne sonore di due film: la prima, che gli valse un Grammy, era un duetto con K.D. Lang di Crying per il film Hiding Out, mentre la seconda era In Dreams inclusa in Blue Velvet di David Lynch, contro la volontà del cantautore che però ne giovò moltissimo. Orbison era di nuovo sulla cresta dell’onda.
Il 1988 fu un anno dai risvolti incredibili se solo si pensi che giusto una manciata di tempo prima Roy Orbison sembrava essere finito nel dimenticatoio. Contemporaneamente Roy lavorò insieme a Jeff Lynne della Electric Light Orchestra all’album di inediti Mistery Girl e insieme al suo vecchio amico George Harrison, Bob Dylan, Tom Petty e lo stesso Lynne al supergruppo Travelling Wilburys nel loro primo album.
Orbison stava vivendo una nuova giovinezza: era appena uscito, riscuotendo un enorme successo, il singolo Handle With Care, mentre era in cantiere la futura hit You Got It, ma quando il tempo lo stava ripagando delle smisurate sofferenze patite nella sua vita, un infarto il 6 dicembre del 1988 lo portò via proprio nel momento della sua rinascita artistica e a poche settimane dall’uscita di quello che sarà il suo ultimo album solista, pubblicato postumo nel febbraio del 1989. Roy Orbison ha lasciato dietro di sé un grande patrimonio musicale e soprattutto dei brani indimenticabili, cantati con l’incomprensibile spensieratezza di chi ha vissuto l’inferno sulla terra ma che ha continuato a sorridere alla vita fino all’ultimo giorno.
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