La sfida è nell’intrinseca natura del videogioco: oggi è principalmente contro un mondo di altri giocatori, prima era quasi esclusivamente contro se stessi. Spesso una sfida di riflessi, coordinazione o tempismo, ma a volte anche di solo e tanto cervello: i puzzle game (o rompicapo in italiano) sono stati l’archetipo ed i diretti discendenti dei giochi enigmistici cartacei e dei rompicapo meccanici come il cubo di Rubik. Il gameplay dei puzzle game è tutto incentrato sulla risoluzione di schemi, in cui a partire da elementi atomici bisogna riconoscere o completare sequenze logiche o un particolare pattern. L’accessibilità pressoché totale verso ogni essere vivente con pollice opponibile è stata la chiave del loro successo che continua ancora oggi, basti pensare a quanti cloni di Tetris o di Sokoban sono tuttora disponibili tra gli app store digitali o in bundle in un qualsiasi tipo di dispositivo elettronico.
A qualcuno però venne l’idea di introdurre le meccaniche puzzle anche in videogiochi d’ambiente platform, con piattaforme, nemici, elementi nascosti, collezionabili, ecc… I puzzle-platform di stampo classico come Lode Runner, Kickle Cubicle, Doki Doki Penguin Land o Door Door furono parte integrante dei parchi titoli delle console e dei home computer degli anni ’80. In seguito il puzzle platform divenne una prerogativa quasi esclusiva del gioco in mobilità di allora, come ad esempio la saga di Wario Land per i vari modelli di Game Boy, prerogativa che si mantiene al giorno d’oggi con molti titoli del genere presenti sul mercato degli app store. Nonostante ciò e nonostante oggi i puzzle game per PC e console fisse siano principalmente tridimensionali (Portal vi dice niente?), esistono alcuni titoli degli ultimi anni che mantengono l’essenza bidimensionale ed al tempo stesso una giocabilità incredibile, data dalla profondità e difficoltà degli enigmi e spesso addirittura da una trama. Di Braid, ossia del titolo che ha ridato nuova linfa a questo genere per il gaming casalingo, se n’è già parlato nel primo capitolo.
Braid ha ridato cittadinanza ai puzzle-platform su PC, ma è stato FEZ a portarli verso nuove vette. Sebbene oggigiorno FEZ venga purtroppo ricordato più per vicende che con il videogioco in senso stretto hanno poco a che spartire (e di cui forse se ne parlerà in separata sede), il titolo sviluppato della Polytron e distribuito dalla Trapdoor prima su XBLA nel 2012 e poi l’anno seguente sulle altre piattaforme è stato un inaspettato successo di pubblico e di critica. FEZ è a metà strada tra un puzzle platform e un metroidvania, dove l’esplorazione del mondo di gioco va di pari passo con la risoluzione dei tantissimi enigmi sparsi ovunque.
La signature feature di FEZ (ispirata da alcuni titoli della saga di Paper Mario) è l’esplorazione del mondo di gioco attraverso la rotazione della prospettiva: le aree del mondo vanno pensate come la superficie laterale di un cubo, di cui però si vedono solo i componenti della faccia frontale e di quella posteriore, schiacciati su un piano. Ruotando la prospettiva è possibile letteralmente vedere il mondo “da un altro lato“: questa meccanica permette al nostro piccolo Gomez di poter scoprire passaggi o crearne di nuovi, nonché di scovare tesori e soprattutto raccogliere i cubi dorati che sono alla base della trama. Già, perché FEZ ha anche una trama, e neanche banale: la possibilità di ruotare la prospettiva è un dono che Gomez possiede grazie a quel fez che indossa, donatogli da una strana entità astratta a forma di grosso cubo che poi esplode in mille pezzi (portando anche ad una schermata fake di crash del gioco), affinché possa salvare il suo spaziotempo da un’implosione che lo farebbe collassare su se stesso.
Nel recuperare i vari cubi ed anticubi di cui l’entità era formata, Gomez scoprirà inoltre tutti i segreti sull’origine del suo mondo e della sua specie, celati dalla moltitudine di enigmi basati sulla crittoanalisi di strani caratteri alfanumerici da leggere come i caratteri giapponesi, in verticale e da destra verso sinistra, e di codici basati sui tetromini di Tetris a cui corrispondono particolari azioni da far compiere a Gomez. C’è anche qualche QR-code da scansionare in giro per la mappa, ma oltre che il vostro smartphone vi servirà carta e penna per tenere traccia delle varie scoperte effettuate man mano.
Ogni area di gioco ha qualche segreto da svelare, e gli indizi sono potenzialmente ovunque in essa: un quadro alla parete, le costellazioni in cielo, dei segni per terra (visibili però solo con la visuale stereoscopica in prima persona sbloccabile nella seconda run) o anche a volte il level design stesso nasconde la chiave per un nuovo passaggio od un nuovo segreto. FEZ non ha combattimenti né boss, non ci sono vite limitate né checkpoint e si viene respawnati nella stessa area di gioco dopo ogni morte; eppure FEZ risulta un titolo davvero ostico a causa degli enigmi via via più intricati e cervellotici, a tal punto che l’ultimo quesito segreto non è stato ancora risolto per induzione, ma solo grazie ad una ricerca bruteforce della combinazione esatta fatta dalla community del gioco nel 2013 tramite un tool online di calcolo parallelo.
FEZ è stato apprezzato, oltre che per la cura maniacale degli enigmi, per le tante citazioni alle glorie videoludiche del passato e non solo (si va dalla cabala ebraica a 2001: Odissea nello spazio, passando per gli spazi di Hilbert ed il nastro di Mobius), per il suo stile grafico in pixel art di chiara ispirazione 8-bit con aree di gioco a tema, come quella colorata coi toni di verde dello schermo del primo Game Boy, e per la colonna sonora chiptune a cura di DisasterPeace, anch’essa non priva di segreti.
Altro titolo a metà strada tra un puzzle ed un metroidvania, The Swapper nacque dall’idea di due studenti dell’università di Helsinki, Otto Hantula e Olli Harjola, che iniziarono a svilupparla nel loro tempo libero, per poi fondare la loro piccola casa di sviluppo, la Facepalm Games, con lo scopo di cercare fondi attraverso Indie Fund e continuarne lo sviluppo. Dopo aver raccolto le risorse economiche ed umane necessarie per terminarlo, The Swapper arrivò su Steam nel 2013 e ricevette consensi molto favorevoli dal pubblico a tal punto che l’anno seguente il titolo passò in mano ai Curve Studios che ne curarono i porting per console pubblicati poi l’anno seguente. In The Swapper si impersona un’anonima donna dalle sembianze “samusarane” intrappolata non si sa come in una stazione spaziale abbandonata e apparentemente disabitata; nel tentativo di cercare una via di fuga e al tempo stesso scoprire cosa diavolo sia successo viene da lei ritrovato uno strano dispositivo di tecnologia aliena capace di creare dei cloni di chi lo sta utilizzando fino ad un massimo di quattro ed anche di poter trasferire la propria coscienza a piacimento (da qui il titolo del gioco) in ognuno di essi, purché essi siano in linea di vista. Gli altri cloni non direttamente controllati dal giocatore seguono esattamente gli stessi movimenti della misteriosa protagonista, fino a quando è loro possibile.
La meccanica di gioco dello scambio del controllo dei cloni è necessario per la risoluzione degli enigmi ed il superamento degli ostacoli, ad esempio è possibile scalare una parete molto alta spawnando verso l’alto i vari cloni fino a raggiungerne la cima, operazione possibile grazie al fatto che durante l’utilizzo dello Swapper il tempo rallenta notevolmente. Obiettivo del gioco è raccogliere degli orb di energia sparsi in giro per la stazione spaziale, spesso dislocati in punti inaccessibili senza l’utilizzo dello strano marchingegno, necessari per poter aprire i portali verso le varie postazioni di controllo della stazione. La difficoltà del gioco risiede nella presenza di ostacoli ambientali e di luci di diverso colore che interferiscono col funzionamento dello Swapper, ad esempio le luci blu in una particolare area vietano la possibiltà di creare dei cloni sotto il loro cono.
Un level design da claustrofobia, una palette di colori scuri con una scarsissima illuminazione della mappa di gioco ed una trama che tocca corde sia esistenzialiste che dell’etica scientifica rendono The Swapper anche una forte esperienza di gioco che va oltre la semplice risoluzione degli enigmi delle varie aree.
Sviluppato dai norvegesi della piccola Rain Games ed uscito su Steam nel 2013 per poi essere portato sulle varie console negli anni seguenti (la versione fisica per PS4 è di inizio 2015), Teslagrad è anch’esso un titolo dalla forte componente esplorativa, ma pieno zeppo di stanze con enigmi tutti basati sull’elettromagnetismo (d’altronde il nome del titolo non è certo casuale), dal controllo della polarità magnetica degli elementi della mappa di gioco come rampe o blocchi (rappresentati come blu se negativi e rossi se positivi) alla manipolazione dei flussi di corrente elettrica e dei campi elettromagnetici. La manipolazione delle forze elettromagnetiche attraverso un paio di guanti polarizzati in possesso dell’anonimo protagonista è necessaria per l’esplorazione dell’enorme torre e per poter sconfiggere le varie creature meccaniche che la popolano. Ad ogni bossfight superata si acquisisce un nuovo gadget che permetterà di esplorare nuove aree altrimenti precluse, in pieno stile metroidvania. L’obiettivo finale è quello di raggiungere la cima della torre dove risiede il boss finale del gioco, il malvagio despota del fantastico regno in cui il gioco è ambientato, dagli spiccati richiami steampunk mitteleuropeo. È possibile inoltre raccogliere delle pergamene che hanno il duplice scopo di spiegare parte della sinossi di Teslagrad e, se raccolte tutte e 36, di poter sbloccare un finale segreto.
Teslagrad è un titolo relativamente breve, ma che unisce magistralmente le meccaniche puzzle a quelle squisitamente platform pixel-perfect jump: il margine d’errore è minimo e la scarsità di checkpoint costringerà il giocatore a tanto backtrack forzato ad ogni morte del protagonista, qualche volta però abbastanza tedioso. Un altro punto a favore è lo stile grafico che richiama le illustrazioni disegnate a mano dei vecchi libri di fiabe con una colorazione molto accesa.
Secondo la mitologia norrena Munin era uno dei due corvi messaggeri del dio Odino, e la mitologia norrena fa da sfondo a questo titolo sviluppato dalla piccola software house portoghese Gojira e distribuito per PC e dispositivi iOS dalla Daedalic Entertainment nel 2014. La sinossi è semplice: Loki ha in qualche modo strappato le ali a Munin, disseminandone le piume in ognuno dei nove mondi che compongono la cosmologia norrena. Munin è quindi costretto a recuperarle attraverso il suo alter-ego umano in ogni angolo dei nove mondi, col supporto del suo “collega” Hugin che può trasportarlo attraverso i vari mondi. L’alter-ego umano di Munin non può far altro che camminare, nuotare e compiere piccoli salti, ma ha una la grande peculiarità di ruotare porzioni delle aree di gioco a piacimento, purché egli si trovi in un’altra parte dello schermo: questo potere permette a Munin di poter creare passaggi per raggiungere le sue preziose piume nere o evitare ostacoli mortali come burroni o pozzi di lava. Uno stile grafico che ricorda vagamente l’arte impressionistica, un gameplay immediato ma non per questo semplice ed una curva di difficoltà ben bilanciata sono i punti di forza di questa piccola hidden gem.
Terrone, quasi ingegnere informatico, moderatamente misantropo, razionalista e liberalista convinto, ex weeaboo ora pentito, videogiocatore incallito da oltre 25 anni: mi piacciono le sfide, per questo sono su IMDI. Posso parlarvi di IT, letteratura moderna, musica elettronica, vidya e sport americani, basta che mi offriate una trappista. La mia waifu è Selphie Tilmitt.
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