Tutti quelli cresciuti negli anni ’90 per diventare poi alternativi autocompiaciuti hanno inevitabilmente uno scheletro che cercano di nascondere nell’armadio, ma qualche volta viene fuori: sono stati, ai tempi, fan di Ligabue. E, diciamolo, i suoi primi dischi non erano poi tutta questa merda, inoltre ci poteva andare peggio: se fossimo cresciuti negli anni ’80 ci sarebbe toccato Vasco.
In ogni caso oltre ai dischi, che piacciano o meno, il Liga nazionale ha tirato fuori anche dei libri, che non ho mai letto, e due film: il secondo, Da zero a dieci (2002), è un tentativo, fallito in modo piuttosto clamoroso, di raccontare il disagio dei trent’anni. Il primo, invece, a sorpresissima è stato non solo un discreto successo commerciale ma ha persino vinto dei David di Donatello (minchia, ha fatto vincere un David ad Accorsi!) ed è a modo suo rimasto nell’immaginario pop come uno dei “film generazionali” dell’epoca.
Stiamo parlando di Radiofreccia.
Del resto l’anno di uscita è il ’98 e due dei tre temi principali, l’amicizia “realistica” e ben poco idealizzata di un gruppo di maschi ventenni e il dramma dell’eroina, lo accostano ineluttabilmente a quello che è per definizione il film generazionale dei ’90, cioè Trainspotting. Risulta piuttosto difficile credere che ciò non sia voluto, visto il gran numero di similitudini anche a livelli a livello di trama e personaggi: il gusto per i monologhi “pesi” (Non tanto il “Io Credo”, un po’ una menata, più “Quelli come me”, che è in fondo una versione provinciale di “Scegli la vita”), la colonna sonora (dai, Iggy Pop NON può essere un caso), il finale che si ricollega all’inizio, la sfiga di Iena che ricorda Spud, l’ironia e il cinismo di Freccia che non possono non rimandare a Renton, persino gli scoppi d’ira di Tito simili in qualche modo a quelli di Begbie; per non parlare di Boris, puttaniere sarcastico e pieno di sé, che di fatto È il Sick Boy della Bassa reggiana.
Le somiglianze continuano anche con il terzo tema, quello della provincia. Sì, Edinburgo dei primi ’90 e Correggio degli ultimi ’70 non sono esattamente la stessa roba, ma se Trainspotting è decisamente “periferico”, ambientato com’è in pub, vicoli e appartamenti devastati di Leith, quartiere popolare della capitale scozzese, lo stesso vale per i baretti e le strade di campagna che vediamo nel film di Ligabue, in un certo senso. Del resto, se Renton e gli altri scapestrati provano a fuggire a Londra per rifarsi una vita, per poi fallire clamorosamente, i provincialissimi Freccia e soci sognano l’America con la radio e le canzoni ma sanno benissimo che “se vuoi fuggire da un paese di diecimila abitanti, vuoi fuggire da te stesso”.
Bene, dal momento che stiamo pur sempre parlando di un film di Ligabue, ora però basta con i complimenti. Perché Trainspotting ancora dopo 20 anni è rimasto un mito, e Radiofreccia, in fondo, non lo è mai diventato?
Perché se il film riesce a descrivere in modo macchiettistico ma tutto sommato credibile la storia di una compagnia di amici e delle loro vicissitudini e sfighe (con la storia della radio libera che in fondo è più una sottotrama che un vero proprio filo conduttore) e a ricostruire in modo un po’ compiaciuto ma in fondo onesto la vita di un paese di provincia, tra la fabbrica e il bar, gli scazzi arrivano quando esce dal seminato. Del resto, un film diventa davvero “cult” quando riesce a cogliere lo spirito del tempo, ha una base qualitativa molto alta e, soprattutto, non si sforza davvero di diventarlo. Ligabue insomma non è Danny Boyle e Stefano Accorsi, che pure qui fa il suo mestiere meglio del solito (ed è al debutto assoluto!), non è Ewan McGregor. Radiofreccia è un film godibile quando si intravede l’arte molto emiliana dell’ammiccamento, lo scorcio ironico sulla mediocrità provinciale, pure la riflessione dolceamara su quel gran casino che è avere vent’anni. Non lo è quando forza troppo i toni, quando cerca la perla di saggezza a tutti i costi, quando vuole imporre una morale sulla questione delle droghe, cosa che invece Trainspotting non fa mai.
Quindi, in soldoni, Radiofreccia è una piccola gemma o una discreta cagata? Nessuna delle due cose ma, oso, è più vicino alla prima definizione che alla seconda. Per questo, se non ti stanno tremendamente sulle palle Ligabue o Accorsi, vale la pena di essere pescato, o ripescato. Anche solo per gustarsi tutta la collezione di casi umani, tra sosia di Elvis, mangiatori di lampadine, papponi e mitomani, che popolano ogni paesino del cazzo che si rispetti, e che nel film sono degnamente rappresentati come i veri eroi della provincia.
Ah, e poi c’è Guccini che fa il barista (e l’allenatore della sfigatissima squadra di calcio locale) brontolone, che da solo vale un po’ il film. A meno che non ti stia tremendamente sulle palle pure Guccini, ma a quel punto sei proprio una pigna in culo, lasciatelo dire.
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