È passato esattamente un anno dal 13 novembre 2015, quando una serie di attentati suicidi sconvolsero Parigi causando 137 morti (tra i quali l’unica italiana, Valeria Solesin) e 368 feriti, in cinque punti della città differenti. Gli attentatori (appartenenti all’autoproclamato Stato Islamico o Isis, come ormai viene chiamato) gettarono l’intera Europa nel panico colpendo contemporaneamente lo Stade de France durante la partita Francia – Germania, il locale Bataclan dove stavano suonando gli Eagles Of Death Metal e svariate caffetterie e ristoranti, quasi tutti nella zona di Saint Denis. Una notte di terrore puro, in cui nessuno si è sentito al sicuro: in tutta la città risuonarono spari e sirene di polizia e ambulanze, chi era per strada cercò riparo in qualsiasi porta aperta che riuscisse a trovare, chi era in casa tentò di accogliere chi scappava e sprangò le finestre. Parigi si trasformò in un teatro di guerra che prima d’ora si era visto forse solo nei film d’azione.
Il 2015 non era iniziato bene per la capitale francese. A gennaio, un commando armato aveva fatto irruzione nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo e aveva fatto fuoco uccidendo, tra gli altri, 7 giornalisti (compreso il direttore della testata). Un totale di 20 morti e 22 feriti in un’azione continuata presso un supermercato a poca distanza, dove uno degli attentatori si era asserragliato prendendo ostaggi e sparando a qualsiasi cosa si muovesse. Già allora erano iniziati a sorgere dubbi sull’efficacia dell’intelligence francese e sulla sua capacità di individuare e neutralizzare le cellule terroristiche presenti sul proprio territorio. Un compito non semplice per gli 007 transalpini: un fiorente ex impero coloniale con ramificazioni in tutto il mondo, ma costruito soprattutto in Africa e nel Maghreb ha fatto sì che la Francia si potesse (e con orgoglio) definire la nazione europea multietnica per eccellenza. Sul suo territorio hanno sempre convissuto in maniera pacifica persone di ogni colore e religione, fino ad annullare i confini delle razze e costituire un popolo unico, coeso, eterogeneo. I francesi hanno sempre sottolineato questa loro particolarità con fierezza: l’essere il risultato di una mescolanza etnica iniziata quattro secoli fa li portava ad identificarsi come il popolo accogliente e tollerante per eccellenza. Non a caso, la Francia è tutt’ora uno dei paesi indicati come destinazione finale dagli immigrati clandestini che usano l’Italia come porta d’accesso per l’Europa.
Il 7 gennaio 2015 la Francia si sveglia dal suo sogno di tolleranza nel sangue delle vittime degli attentati a Charlie Hebdo, rendendo necessaria una riflessione e un’azione a cui, forse, non erano del tutto preparati. Inizia il periodo del sospetto, della paura dello straniero, nell’assurda convinzione che il pericolo possa venire sempre e comunque “da fuori” e non possa maturare e crescere dal di dentro, nelle pieghe di una società che fa della multirazzialità la sua bandiera ma che non riesce, comunque, a garantire a tutti un uguale accesso al benessere e alle risorse. Sono passati esattamente 10 anni dalle rivolte delle banlieu parigine, quando le periferie della Capitale furono messe a ferro e fuoco da squadre di giovani prevalentemente di colore o comunque appartenenti a minoranze etniche (sia pur di nazionalità francese, per la maggior parte), stanchi di vivere nell’emarginazione e nella povertà di zone della città che erano vere e proprie baraccopoli, degradate e pericolose. Il malcontento si estese in altre zone della Francia che per tre settimane vissero una situazione di vero e proprio assedio urbano, spingendo l’allora presidente Nicolas Sarkozy a dichiarare lo stato d’emergenza e a rispolverare leggi per la sicurezza pubblica promulgate ai tempi della Guerra d’Algeria. È forse negli strascichi di queste rivolte che il terrorismo islamico attecchisce: la violenza come unico mezzo di espressione e di affermazione trova terreno fertile nel rancore di chi vive “ai margini”. Per affinità linguistica e culturale, l’Isis non fatica a reclutare adepti nelle fasce deboli di una popolazione accecata dalle mille luci della Ville Lumière, che molto spesso nasconde i problemi dietro una patina sfavillante di lusso e opulenza.
Siamo arrivati ad oggi, 365 giorni dopo gli attentati più gravi mai successi in Francia dalla Seconda Guerra Mondiale, e Parigi ha più che mai voglia di ripartire. Lo fa ricominciando proprio dal Bataclan, che riapre stasera ospitando Sting in concerto (sold out annunciato). La voglia dei francesi di partecipare, di dimostrare che il terrore non può vincere, sta concretizzandosi con centinaia di iniziative spontanee che stanno portando le persone in strada a lasciare un biglietto, un fiore, un pensiero sui luoghi della morte ma non solo. In attesa delle celebrazioni ufficiali di domani, la gente vuole far capire che è stanca di avere paura. Perchè in questo anno, il comune denominatore della vita dei francesi e dei parigini in particolare è stato uno solo: la paura. Quella paura che si legge negli occhi riflessi nelle vetrine di Champs Elysèes, quando l’ennesimo addetto alla sicurezza ti perquisisce e ti intima di aprire la borsa. Quella paura che attraversa la mente, quando si passa sotto l’ennesimo metal detector. Quella paura che ti stringe lo stomaco, quando cala la sera e ci si ritrova per strada a cercare ossessivamente un soldato o un gendarme di pattuglia, per sentirsi rassicurati, protetti per quanto possa essere possibile. Nelle piazze di Montmartre che prima erano popolate di artisti fino a tarda notte, ma ora sono deserte fino già da mezzanotte; nelle file chilometriche davanti a monumenti e musei per essere controllati tutti, nessuno escluso; nel muro di diffidenza verso il prossimo che è diventato tangibile, imponente, soffocante: in tutto questo si riassume l’anno più difficile di Parigi, che cerca di ripartire e di difendersi, commemorando le vittime e cercando di non perdersi in questo mare di terrore.
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