L’evoluzione sociale ha da sempre influito sul precetto normativo. Questo in quanto non può esistere la pretesa della norma eterna: il diritto è mutabile, si adatta ai tempi e alla società. La norma giuridica, quindi, nasce da un bisogno sociale e non il contrario. Non si può pensare di creare una norma e sperare in un immediato cambio della società.
Sulla base di questo discorso è facile intuire come norme, tanto care ed invocate dal popolo, finiscano poi per essere di scarsa utilità pratica.
In primo luogo c’è da considerare come viene disciplinato in Italia l’omicidio, per poter giungere a valutare e capire se la norma preesistente abbia bisogno di evolversi o meno.
La disciplina del delitto di omicidio è molto semplice: l’articolo 575 del codice penale sancisce che chiunque cagioni la morte di un uomo, è sanzionato con la reclusione non inferiore ad anni 21.
Ventuno anni è dunque la pena minima prevista in questi casi. Senza entrare troppo nel dettaglio comparatistico, è già possibile sfatare e abbattere un luogo comune molto diffuso: la pena in Italia è più alta della media europea.
In alcuni casi è prevista la pena dell’ergastolo. Alla detenzione perpetua si fa ricorso anche e soprattutto quando l’omicidio si suole definire circostanziato, ossia viene commesso in alcune circostanze particolari: le famose e strasentite aggravanti. Differenti circostanze aggravanti possono comportare un aumento ( o anche perpetuità) della pena base prevista per la fattispecie non circostanziata: i motivi futili, le sevizie, la crudeltà, la premeditazione e via dicendo. La più antica è quella relativa all’omicidio del padre, addirittura risalente all’epoca della Roma antica.
Essa è attualmente estesa ai rapporti di parentela, tuttavia risente fortemente dei cambiamenti dati dall’evoluzione sociale. Non è la previsione in sé ma il precetto conclusivo dell’articolo 577, il secondo dei due articoli sulle circostanze aggravanti, che viene all’attenzione: è prevista l’applicazione della pena di anni trenta, anziché dell’ergastolo, nel caso in cui l’omicidio avvenga nei confronti del coniuge, del fratello e della sorella o infine dei genitori o figli adottivi. La ratio giustificatrice è dunque il mero legame di sangue, criterio di derivazione romana e di stampo fascista.
Tuttavia in altri ordinamenti occidentali, primo fra tutti quello francese, la sanzione dell’ergastolo è estesa al convivente.
Il fatto che si tratti di un rapporto fiduciario , criterio più moderno rispetto alla consanguineità, ed una conseguente minorata difesa della vittima come ragione fondante l’aggravante, fa apparire irragionevole la differenza di trattamento rispetto ad altri rapporti diversi da quello padre figlio.
Il matrimonio si fonda sul rapporto di fiducia così come lo stesso rapporto intercorrente anche tra fratelli.
Nel caso dell’adozione poi questa fiducia dovrebbe essere maggiore. Il legame fra i soggetti, qui, non è qualcosa di accidentale, come il sangue, ma è una scelta. I genitori hanno scelto di adottare e pertanto il vincolo dovrebbe apparire più saldo.
Un medesimo discorso potrebbe estendesi anche al coniuge, là dove vi è stato un reciproco scambio di promesse. Marito e moglie si sono uniti in un vincolo, impegnandosi reciprocamente in quello che dovrebbe essere un rapporto basato appunto sulla fiducia.
Vi è in queste situazioni delittuose un capovolgimento totale del rapporto, minato da odio, rancore, risentimento.
Appare giusto che il legislatore assecondi lo sdegno della maggiore sofferenza causata dalla situazione affettiva in esame. Una maggior afflizione della stessa vittima, ma anche dei soggetti a essa legati.
La problematica degli omicidi in famiglia, inoltre, appare centrale al giorno d’oggi.
Scostandoci dai dati che ci pervengono quotidianamente, gli omicidi commessi all’interno del nucleo familiare occupano circa il 30% degli omicidi, permettendo di collocare tali fattispecie al primo posto. Di queste, prime fra tutte si collocano quelle poste in essere dal coniuge, seguite dai figli e dai fratelli. Dal dato statistico appare già evidente come la normativa già presente non sia in linea, sotto un punto di vista strettamente numerico, con il manifestarsi del fenomeno dell’odierna società. Per questa ragione l’eliminazione di questa irragionevole ed iniqua differenza di trattamento, ad avviso di chi scrive, nonchè una piena estensione dell’ergastolo, sarebbe più consona e sicuramente più utile.
Il legislatore dovrebbe intervenire con lo strumento più penetrante che possiede e che gli è dato di usare ( pur sempre in casi di extrema ratio) : quello repressivo, della pena perpetua. Non è forse il timore di una punizione severa (l’ergastolo) che prevale sull’effimero e momentaneo piacere derivante dall’azione illecita (l’omicidio appunto) a concretizzare la più importante funzione della pena? Essa è quella di deterrente sociale. Controspinta alla spinta criminosa, motivo contrario ai motivi a delinquere, come insegna Feuerbach.
Nato in provincia di Vicenza nel 1990. Laureato in Consulenza del lavoro e laureto in giurisprudenza all'università di Padova, praticante avvocato. Scrivo per IMDI dal 2013.
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Nato in provincia di Vicenza nel 1990. Laureato in Consulenza del lavoro e laureto in giurisprudenza all'università di Padova, praticante avvocato. Scrivo per IMDI dal 2013.
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