Nel 1959 Richard Feynman considerò la possibilità di realizzare sintesi chimiche più efficienti manipolando direttamente gli atomi coinvolti. La lezione, passata alla storia col nome “There’s plenty of Room at the Bottom” (“C’è un sacco di spazio là sotto”), era decisamente visionaria per i tempi ed ebbe scarsa considerazione all’interno del mondo accademico-scientifico. In seguto, con la nascita delle nanotecnologie, quel discorso fu riportato alla luce ed è oggi considerato una delle spinte motivazionali che hanno portato allo sviluppo di questo campo di ricerca e alla realizzazione di nanomacchine sempre più raffinate.
Sebbene il “reattore microscopico” ipotizzato da Feynman sembri ancora essere una conquista lontana, la realizzazione di macchine sempre più piccole, fino alla scala molecolare, è una delle odierne sfide della Scienza; le applicazioni delle macchine molecolari sarebbero così vaste e riguarderebbero così tanti settori (basti pensare all’elettronica o alla medicina) che la raffinazione delle tecniche e la produzione in massa dei nanodispositivi avrebbero un impatto paragonabile a quello delle precedenti Rivoluzioni Industriali. Non deve sorprendere, quindi, la scelta di conferire il prestigioso premio a Jean- Pierre Sauvage, James Fraser Stoddart and Bernard L. Feringa, considerati i pionieri della progettazione e sintesi di macchine molecolari.
Una macchina ha bisogno di tre elementi essenziali per il suo funzionamento: una fonte di energia, un interruttore (ovvero qualcosa che sfrutti l’energia erogata per fornire un input) e un sistema che trasformi questo stimolo in movimento. È evidente che il significato di questi concetti è differente quando questi vengono applicati a strutture in scala molecolare. Una fonte di energia utile è una sorgente in grado di provocare una precisa modifica strutturale in una molecola o un aggregato molecolare. La fonte può essere calore o una radiazione luminosa, oppure un composto che reagisca direttamente con il sistema. L’interruttore è la parte del dispositivo direttamente coinvolta nell’assorbimento dell’energia e nella conseguente trasformazione, che comporta il riarrangiamento spaziale dell’intero sistema.
Il movimento è l’aspetto più difficile e intrigante della progettazione, perché comporta il superamento di due importanti ostacoli: le fluttuazioni termiche e la scala dei tempi. Sappiamo dalla scuola superiore che il significato intrinseco della temperatura è l’agitazione delle particelle di cui è costituita la materia: maggiore è la temperatura, maggiore è l’entità di questo moto caotico. Per riuscire a muovere la nostra macchina in modo controllato è necessario, quindi, limitare oppure convogliare questi moti. Il secondo ostacolo nasce dal fatto che ogni trasformazione, anche un semplice riarrangiamento spaziale, necessita di un tempo finito per avvenire: dato che ogni “giro” del motore corrisponde ad almeno due trasformazioni (quella innescata dalla fonte energetica e quella che riporta la macchina al suo stato iniziale), la rapidità con cui esse avvengono determina la velocità di rotazione del motore. Per capire gli ordini di grandezza in gioco basta pensare che uno dei motori realizzati dal gruppo di ricerca di Feringa ruota a una frequenza di oltre 12MHz, che corrispondono a ben 12 milioni di giri al secondo.
I primi lavori di ricerca si sono concentrati principalmente sulla realizzazione e lo studio di due particolari tipologie di aggregati molecolari in grado di costituire lo scheletro delle nanomacchine: catenani e rotaxani. Entrambe le strutture sono costituite da due o più molecole la cui geometria ne impedisce la separazione ma assicura libertà di movimento al sistema.
I catenani sono aggregati molecolari sintetizzati in modo che una molecola venga “chiusa” attorno a un’altra molecola ciclica, attraverso una serie di reazioni chimiche; la struttura che si forma ricorda gli anelli di una catena (da qui il nome). I rotaxani sono costituiti da una molecola ciclica attraversata da una lunga molecola, che possiamo vedere come l’asse di un rotore, le cui estremità sono ingombranti e impediscono che essa si “sfili” dall’anello. La sintesi di sistemi così complessi è di difficile messa a punto; i primi tentativi, risalenti già alla metà degli anni ’70, conducevano a rese basse e possibilità geometriche poco flessibili. In questa direzione è stato fondamentale il contributo di Sauvage, che ha perfezionato la sintesi di queste strutture (anche più complesse di quelle illustrate) attraverso una metodica chiamata template synthesis, che utilizza complessi metallici come una sorta di stampo per la formazione della geometria voluta; un affascinante punto d’incontro fra la chimica organica e quella inorganica, che invito ad approfondire qui.
Design più recenti, tra i quali quello delle nanomacchine di Feringa, si basano sul concetto di isomeria geometrica, ovvero differenti possibili disposizioni spaziali di una molecola; fornendo l’opportuno stimolo energetico, è possibile provocare una transizione controllata tra una forma e l’altra ottenendo, così, un movimento ben definito.
Progettare una macchina molecolare significa realizzare, vincendo le numerose sfide sintetiche, una struttura capace di compiere un movimento programmato in risposta a un ben determinato stimolo, con un’efficienza che va ben oltre quella che riusciamo solamente ad immaginare per un motore in scala macroscopica. Possiamo renderci conto, quindi, della complessità e della grandezza del lavoro svolto dai tre gruppi di ricerca vincitori del premio Nobel. Siamo ancora piuttosto lontani dal manipolare la materia microscopica con un approccio ingegneristico, ma il passo che è stato fatto ha portato ad un’innovazione e una fiducia nei mezzi che non hanno, forse, precedenti nella storia della Chimica.
Per chi volesse approfondire, è possibile visualizzare gli aspetti tecnici dell’argomento qui.
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