Alla giovine età dei suoi settant’anni, il premio Strega sembra stare attraversando una seconda adolescenza. Dopo la svolta più commerciale (o almeno commercializzabile) degli ultimi anni, culminata con l’arrivo in finale di Zerocalcare e la vittoria de La Ferocia nel 2015, ora sembra aver fatto una totale inversione di rotta.
È quindi solamente naturale che la vittoria, in questa edizione del 2016, sia andata un romanzo che fa dell’adolescenza il suo leitmotiv.
Riassunta in poche parole, La Scuola Cattolica è un memoir semi-narrativo sull’adolescenza dell’autore, gli anni ’70, il delitto del Circeo e la vita del quartiere Trieste di allora.
È una collezione di saggi, di pensieri e riflessioni intramezzata da aneddoti, descrizioni di personaggi, racconti. È un prodotto sfaccettato, difficile da inquadrare in un’unica definizione o categoria. Le sue 1300 pagine coprono qualunque genere di argomento, dai negozi dove era meglio fare acquisti, al senso morale del matrimonio; dalla dipendenza ideologica della borghesia dalle altre classi alla fenomenologia dei trans in prigione.
Purtroppo però dire che ogni pagina, ogni passaggio, ogni capitolo presenti la stessa qualità letteraria, sarebbe alla meglio una concessione vittima dell’ottimismo, alla peggio una semplice bugia.
La qualità del pensiero, della riflessione, degli spunti varia – e varia parecchio. Dopo un insight (o un patchwork, parola che l’autore ama quasi eccessivamente) perspicace e sorprendentemente neutro su pregi e difetti della borghesia del tempo, al lettore vengono subissate tre pagine e mezzo per definire la parola “nerd”. Dopo certe descrizioni della crescita del ragazzo che sono propria e alta letteratura, ecco due capitoli sulla religione più degni dei dibattiti su Youtube fra Dawkins e il fanatico di turno, che di un romanzo.
Mi permetto una piccola tangente per insistere sulle pagine che spiegano l’etimologia del nerd. Albinati è riuscito, non saprei dire come, a sembrare contemporaneamente il sedicenne scazzato che cerca di spiegare a sua nonna cosa voglia dire twittare, e il gruppo di pubblicitari tardo-cinquantenni che inseriscono senza un motivo dei meme nei loro spot per cercare di coinvolgere i giovani. Non un’impresa da poco a rifletterci un attimo.
Stupidaggini a parte, i saggi hanno poi un secondo problema: certi (non tutti) sembrano non aver subito alcuna forma di editing. Mi dispiace criticare chi probabilmente ha fatto un lavoro estenuante per editare il tutto, ma l’impressione è quella. Non mancano i saggi doppione, gli stessi concetti ripetuti più e più volte, al punto che lo stesso Albinati lo fa notare (“ma questo forse l’ho già detto…”, compare più di una volta, ironicamente) . Ed è particolarmente offensivo considerata la mole non indifferente dell’opera, che sicuramente non avrebbe perso molto da un paio di sforbiciate. È un peccato che la prima opera letteraria italiana veramente ambiziosa da molti anni, in termini di proposta e dimensioni, debba soffrire di un difetto simile.
Il tutto viene poi aggravato da un passaggio in cui l’autore ci racconta di come abbia appena finito di scrivere il capitolo che stiamo leggendo, di ritorno da una giornata al mare. Il pensiero del giorno, insomma. Che di base non è nulla di negativo, al contrario, ma mina sostanzialmente la possibilità che ci fosse un progetto unitario per l’opera. Non solo, ma nel spendersi su come quello che ha scritto è il risultato di quanto ha visto per caso, quel giorno al mare, non fa che moltiplicare i dubbi sulla mancanza di post-produzione. Non voglio dire che l’opera sembri una raccolta di riflessioni casuali, o che non ci sia un tema o una struttura unificante, ma è un po’ venuta a mancare la cura dei dettagli. Il che è comprensibile ripensando alla sua dimensione. Il che però rimanda alla domanda del perché quella dimensione.
Qualunque amante dei romanzi particolarmente longevi condivide la massima che la loro arte stia anche nel non essere più lunghi di quanto non avrebbero dovuto essere. Non sempre questo sentimento è condivisibile per l’opera di Albinati. Per alcune parti, indubbiamente. I pezzi sullo sviluppo dell’uomo – del maschio, si intende – hanno addirittura il pregio di sembrare troppo corti, ma vi tornerò dopo. Altre parti sono invece interminabili.
Di nuovo il tema della mancanza di editing ritorna prepotente per una serie di dettagli che continuano a emergere avanzando nelle pagine. Ad esempio il fatto che ci sia una significativa inversione di rotta, a partire da circa i due terzi, su come l’autore scrive gli elenchi brevi. Vale a dire che se prima usava la classica forma sostantivo-virgola-sostantivo-virgola-ecc, da un momento all’altro si passa al semplice accostamento di sostantivi. Non è qualcosa di fondamentale, non è nemmeno un problema di per sé, ma è straniante questo improvviso cambio di direzione. E la sua spiegazione più naturale, maledetta malizia, è che qualcuno, a un certo punto della correzione, abbia smesso di aggiungere le virgole.
Ci sono poi alcune interruzioni quantomeno bizzarre. È veramente difficile comprendere il perché, dopo cinquanta pagine di tirata sulla politica del tempo, veniamo deliziati da un breve intermezzo in cui scopriamo della passione dell’autore, a sedici anni, per tenere le dita al caldo quando in compagnia della sua ragazza. Non sono scandalizzanti, non sono nemmeno grottesche. Di fatto non sono assolutamente nulla. E la apparente totale casualità con cui compaiono questi sprazzi di sessualità (cito solo questo esempio, ma ce ne sarebbe un buon numero) non può che portare a farsi delle domande. Sembrano quei fortissimi in musica con cui si cerca di recuperare l’attenzione di un pubblico annoiato. Che di fatto, però, non ha motivo di essere annoiato. Non capitano nei punti più pesanti dell’opera; semplicemente appaiono e se ne vanno come un temporale estivo.
Quando si parla di punti più noiosi dell’opera, verrebbe istintivo difendersi con il tema della soggettività. Chi può dire quali parti siano le più noiose e quali le più intriganti? Albinati stesso, ad esempio. Sì perché con un moto di manzoniana finta modestia, ci regala tutta una sequenza di intercalare: “se il lettore vorrà proseguire con me ancora un poco”, “resistete ancora un po'”, o addirittura “chi non è interessato all’argomento passi pure al capitolo x”. Sarei stato convinto della formale finta modestia se non fosse che quegli incoraggiamenti cadono, con una precisione matematica, nei punti che più si trascinano e paiono non finire mai. Di nuovo la malizia suggerisce una consapevolezza della noia e un poca predisposizione a rimediarvi.
I più accaniti detrattori di qualcosa sono generalmente persone che avevano alte aspettative per quella cosa, e che si sono viste tradite le suddette aspettative. La Scuola Cattolica ha tutti i requisiti per generare questo tipo di critico. Sì perché al suo meglio, al suo massimo, ha un potenziale straordinario.
Quando Albinati va a toccare i suoi punti forti – argomenti su cui ha esperienza di vita, di base – riesce a essere originale e tremendamente interessante. Sono da citare tutti i passaggi sull’adolescenza e la crescita del maschio. È molto, molto difficile trovarne una descrizione migliore nella letteratura moderna. Tutto il dualismo fra insicurezza e spavalderia, machismo e omosessualità, crescita esteriore e interiore, viene affrontato con una lucidezza e perspicacia senza precedenti. Albinati riesce a fornire una descrizione completa e reale, viva, che va a scavare non solo su come si manifesti la crescita, ma anche sul perché si manifesti in quel modo. Va a indagare su quell’adolescenza del maschio così, – parafrasando l’autore, molto meno discussa e molto meno interessante, agli occhi dei maschi stessi, rispetto a quella femminile.
Chi ha frequentato una scuola esclusivamente maschile (ne esistono ancora?), o (più realisticamente) una classe esclusivamente maschile, potrà ritrovarsi specchiato nella descrizione di quello che si potrebbe definire il clima della caserma gentile. Protetta dalla violenza fisica grave, la mascolinità si piega, si deforma. Si aggroviglia attorno a se stessa e trova tutti i suoi elementi, compresi quelli che credeva di aborrire. L’amore per tutto ciò che è femmineo, sofisticato, dolce e delicato. La sicurezza granitica dell’amicizia e l’odio reciproco. Il conflitto, la graduatoria perenne. La violenza leggera, quella invisibile, quella permessa.
L’adolescenza, la borghesia, le madri, Arbus e la sua famiglia. C’è molto in questo romanzo che inciti a girare pagina, ma è sommerso da un mare di inutilità. Pagine su pagine di affermazioni infalsificabili. “Per alcuni lo stupro non è una delle possibili forme dell’incontro tra maschio e femmina, piuttosto la sua sostanza, la sua essenza, radicata nella storia, nel mito, nella configurazione metafisica del rapporto fra i sessi”. Sì? No? Forse? E quindi?
E quindi è la domanda che ricorre più spesso, nella mente del lettore. La sensazione predominante, per un numero di capitoli, è che Albinati non stia cercando di arrivare da nessuna parte. Non ci sia un punto, uno statement, che sta cercando di fare. Il che di nuovo non sarebbe necessariamente un male – in piccole dosi. Ma quando dalle piccole dosi passiamo alle letterali centinaia di pagine, la situazione si modifica. Sì perché dopo centinaia di pagine che stiamo girando attorno a un argomento – dopo centinaia di pagine che stiamo dicendo cose su di esso, certo, ma senza una direzione esatta, la fatica è inevitabile. Lo stesso autore a pagina 758 ci omaggio di un: “Io avevo bisogno di molte chiacchiere per avvicinarmi a un concetto, persino al più elementare, come se le parole inutili servissero a incamminarsi in una direzione senza avere idea se fosse quella giusta, tanto per uscire dallo stallo. Tuttora è così, per me.” Senza rendersi forse conto degli effetti collaterali della verità di quella frase.
Non credo di averne goduto meno perché mi mancava la nostalgia del tempo (che per forza di cose non ho vissuto). Così come la mia sopportazione è solitamente alta per le cose regolarmente riconosciute come noiose. E nonostante tutto l’eccitazione nel vedere spuntare un nome proprio, nella pagina successiva, è stata impossibile da reprimere.
In definitiva, La Scuola Cattolica è un po’ come il quartiere Trieste dopo il delitto del Circeo. All’interno di esso si nascondono elementi diversi, con le qualità per passare alla storia, ma sono perfettamente nascosti all’interno di un quartiere di normalità impressionante.
Mi assumo il peso delle mie parole quando dico che se qualcuno ritagliasse e incollasse assieme tutte le parti del romanzo di narrativa e le unisse ai saggi sull’adolescenza e ai pochi estratti dal resto degli argomenti, il risultato sarebbe un romanzo con un potenziale straordinario. Capace, molto probabilmente, di sopravvivere ad Albinati stesso.
Lo si potrebbe addirittura chiamare un classico, ma, per citare l’autore: “il problema della verità è se dirla o non dirla”.
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