Durante questo febbraio abbiamo potuto assistere all’ultima edizione del festival di Sanremo, vi abbiamo raccontati i concerti dei Biffy Clyro e di Cosmo, vi abbiamo parlato del fenomeno di YouTube Pink Guy, della triste vicenda del cantautore Tim Hardin, siamo andati alle radici della musica occidentale e abbiamo raccolto i migliori brani dei Cure in una playlist. Ora siamo giunti alla fine del mese, con la ormai classica rubrica dei migliori dischi usciti in questo periodo, questa volta in versione ridotta per il mese più breve dell’anno.
Ryan Adams, in Italia, non è molto conosciuto e spesso viene confuso con il quasi omonimo cantante canadese Bryan Adams, ma è uno dei migliori songwriter contemporanei.Il suo ultimo album, Prisoners, è l’ennesima prova del suo cristallino talento.
Ryan Adams riesce ad unire dei testi malinconici che ricordano Elliot Smith ad un comparto sonoro molto ampio e variegato, influenzato sia dal rock di Bruce Springsteen e Tom Petty che dal country, facendo come da ponte delle diverse tradizioni del cantautorato americano.
Il disco parte con la bellissima Do You Still Love Me?, che segna fin da subito l’atmosfera triste e malinconica che contraddistingue i vari brani, la classica di ogni cuore spezzato. Dopodiché, l’album è un susseguirsi di canzoni che rappresentano la vita di un prigioniero in questa malinconia, che cerca di uscire da questa situazione inevitabile per poi scomparire lo stesso, come ci suggerisce il pezzo finale We Disappear, potenziale inno della rassegnazione dopo la fine di un amore.
Ryan Adams descrive perfettamente le varie fasi di una storia d’amore ormai finita, dalle speranze iniziali dopo la rottura fino alla già citata rassegnazione, passando per le varie emozioni, espresse in canzoni come Haunted House, Shiver and Shake, la title-track Prisoners e Outbond Train.
Citando lo stesso Adams, il disco musicalmente si mette a metà strada tra Darkness on the Edge of Town del già citato Bruce Springsteen e Meat is Murder degli Smiths, coniugando il rock e le chitarre da stadio del primo con la composizione melodica che è debitrice della tradizione pop-rock britannica. Adams riesce a portare la sua disperazione della vita privata su un disco che potrebbe diventare la medicina perfetta per ogni cuore infranto che cerca di guarire, anche se ci vorrà tempo, come sembra farci capire lo stesso Adams. (Gianni Giovannelli)
Dopo aver collaborato con musicisti del calibro di Kanye West e due EP pubblicati fra il 2010 e il 2013, il cantante britannico Sampha Sisay, conosciuto semplicemente come Sampha, si presenta al grande pubblico con il suo album d’esordio Process, uscito il 3 febbraio.
Il titolo può essere visto come un aiuto alla comprensione dell’album stesso: Sampha si ritrova orfano di padre ad appena 10 anni, mentre sua madre è scomparsa nel 2015. Process è quindi la metabolizzazione del dolore da parte del musicista, un viaggio intimo per riscoprire sé stesso e superare le sue debolezze.
Un disco di delicato new soul, in cui Sampha espone le sue paure e le sue sofferenze senza vergogna ma con una lucida consapevolezza: dalla traccia d’apertura Plastic 100°C, in cui il giovane cantante mette a nudo il suo animo vulnerabile, fino alla conclusione con What Shouldn’t I Be?, ritratto nostalgico della sua ormai sgretolata famiglia, Sampha condivide senza censure tutto il suo essere con l’ascoltatore.
La perla centrale dell’album è la stupenda ballata (No One Knows Me) Like the Piano: a differenza degli altri brani, caratterizzati da sonorità elettroniche e ritmiche atipiche, la voce di Sampha viene accompagnata dal solo pianoforte, strumento arrivato nella casa della sua infanzia quando aveva solo tre anni e che lo ha avvicinato al mondo della musica fin dalla più tenera età.
Nonostante sia solo la vera prima prova da solista per Sampha, Process mostra una maturità da artista consumato ed è capace di mettere in mostra l’intricato animo triste di questo promettente cantante. Un ottimo biglietto da visita in grado di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore sia con la musica che con gli intimissimi testi. (Vittorio Comand)
Un rumore di corno, oscuro e torreggiante: è il suono di apertura di AS Truth, nuovo mixtape degli Amnesia Scanner, quasi a guidare l’ascoltatore oltre quel mare denso e oscuro, organico e sintetico al contempo, che era AS.
Un suono che inganna e confonde l’ascoltatore, dato che le acque in cui naviga questo EP non sono certo rassicuranti: laddove in AS l’ammasso informe di suoni biorobotici e sample destrutturati fluiva in una massa fluida e spettrale, caotica eppure in qualche modo ballabile da qualche raver futuristico, qui viene convogliato in una sorta di assurdo collage, un insieme di stop’n’go e sferzate sonore frenetico e in continuo movimento, variegato eppure lucido e coeso, capace di destabilizzare l’ascoltatore come mai gli Amnesia Scanner erano riusciti a fare, seppur molto capaci sin dagli esordi. Ne sono un esempio la marcia industrial di AS Drugs On War, con le sue pulsioni rave al limite della cacofonia, e la centrale AS Truth, con i suoi sample techno e dubstep destrutturati e continuamente rimescolati.
Il mixtape termina persino con un momento ambient, l’unico della discografia dei due artisti tedeschi, sorretto da una sorta di cordofono sintetico e da voci spettrali e denaturate, creando una tensione che in realtà sembra sul punto di esplodere da un momento all’altro e mettere a nudo una nuova, ennesima illusione. (Simone Barondi)
18 Maggio 2017
20 Aprile 2017
31 Marzo 2017
19 Marzo 2017
16 Marzo 2017
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.