Mentre il fortunato contro-golpe del Presidente turco Erdoğan continua a mietere eccellenti vittime, è lecito domandarsi l’entità dei recenti rigurgiti delle frange più radicali dell’Islam turco, e la possibilità che l’attuale Presidente diventi di fatto un sultano. Queste, recentemente rinvigorite dal beneplacito governativo, sembrano pronte a distruggere ciò che è rimasto della laicità in un Paese che si allontana giorno dopo giorno anche dalla democrazia.
Si tratta di una conseguenza diretta della progressiva e fulminea sparizione delle ideologie liberali da una Turchia il cui futuro è totalmente incerto.
Lo spettatore occidentale sarà certamente messo in guardia dai recenti avvenimenti in Francia e Germania, e sarà magari conscio della politica di laissez-faire di Erdoğan nei confronti di Daesh, in funzione anti curda. C’è da chiedersi, allora, quale sia il ruolo dell’Islam radicale nel “nuovo progetto” del Presidente turco.
Nonostante il timore, sentito da alcuni, di un nuovo Stato islamico – questa volta, sovrano – alle porte dell’Europa, c’è da sottolineare che i rapporti col mondo religioso siano unicamente funzionali ad Erdoğan in chiave politica; il fatto che egli goda dell’appoggio del mondo turco tendente all’integralismo non lo trasforma automaticamente anche in un sultano. Seppur prezioso alleato dei radicali, per essi rimane comunque un outsider sotto ogni aspetto. Confondere l’identità strettamente politica dell’attuale Governo turco con quella politico-religiosa tipica di un passato ottomano sarebbe un grossolano errore, peggiore se si intende proporre una similitudine con le nuove tendenze dei Paesi arabi, che con la Turchia condividono poco terreno comune in questo senso.
Indubbiamente, avere il benestare di figure in ambito religioso è utile per propugnare la propria politica autoritaria, in particolare perché possono coadiuvare nella distruzione dell’ideologia democratica di stampo occidentale in Turchia, ma si tratta pur sempre di fazioni distinte con le quali sarà necessario porsi in continua trattativa.
È possibile individuare molteplici motivi che, al momento, portano il Governo e il radicalismo ad andare a braccetto. Il primo, come detto, consiste in un obiettivo di ridimensionamento delle forze liberali in Turchia: Erdoğan ne arresta e reprime i protagonisti, mentre i religiosi riempiono le piazze al loro posto in funzione della propria ideologia. Anche in territorio estero, le due fazioni hanno un nemico comune: Fethullah Gülen, l’imam moderato indicato dalle forze governative come ideatore del golpe.
Gülen, pur relegato in secondo piano a causa del suo esilio negli Stati Uniti, rimane comunque una spina nel fianco sia per la sua affermata posizione ideologica, sia per la possibilità da parte del governo statunitense di utilizzarlo come arma segreta nei confronti di Erdoğan.
È però probabile che le conseguenze più importanti si avranno sul piano giuridico nazionale, attraverso una cristallizzazione delle tendenze autoritarie del momento. In linea teorica, l’eliminazione degli avversari politici di Erdoğan spianerebbe la strada – in seguito alle prossime elezioni – ad un rapporto legislativo di do ut des con le forze religiose, che verosimilmente potrebbero chiudere un occhio sull’accentramento del potere da parte del leader di AKP, in cambio di maggiori pretese politiche nei confronti di una laicità turca in fase di erosione. La recente notizia della costruzione di una costosa e controversa moschea nel cuore di un sito protetto di Istanbul può essere considerata come una mano tesa in tal senso.
Niente a che vedere, comunque, con l’esagerata bufala degli ultimi giorni riguardo la presunta eliminazione dei reati di pedofilia e abusi sessuali, “notizia” che più che altro indica la scarsa preparazione dell’opinione pubblica occidentale riguardo la realtà al di là del Bosforo, e che ha in realtà travisato una discussione giuridica intorno ad un articolo del codice penale turco. È più credibile ritenere che queste frange dell’integralismo turco si riuniranno sotto un’egida simile a quella dei Fratelli Musulmani, portando ad un clima di pesante equilibrio fra autoritarismo e religiosità sulla falsa riga di quello egiziano.
Inoltre, si può ben credere che Erdoğan abbia imparato la lezione del permettere ad una fazione di proliferare eccessivamente e rischiare di andare fuori controllo. Un mondo oggi caotico come quello dell’Islam politico – basti pensare all’esito della Primavera araba – può essere sì un potente amico, ma dal quale guardarsi le spalle in continuazione.
Da parte di Erdoğan è più lecito attendersi un approccio tendente alla classica dittatura di stampo laico più che un atteggiamento da sultano religioso, fatta di strapotere governativo e di un forte apparato politico di repressione. Ma c’è ancora da vedere come reagirà una buona metà del popolo turco, la fetta democratica che non ha ancora avuto modo di riunirsi e contrattaccare, memore degli scontri e della repressione tipici degli ultimi anni di governo dell’AKP.
Un considerevole fattore di pressione verrà allora dai rapporti con l’estero: USA, Russia ed Unione Europea si ritrovano in questi giorni ai ferri corti con la Turchia e, prima di fare qualunque previsione sull’effettiva tenuta della presa di Erdoğan, sarà necessario capire come questi si evolveranno.
Valerio Bastianelli
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