Il presente articolo è il primo di due in cui si intende affrontare il tema del debito pubblico italiano da piú prospettive: una prettamente storica, ovverosia l’evoluzione del nostro debito pubblico e se questa abbia in qualche modo agevolato lo sviluppo economico italiano; ed una prospettiva politica in cui si cerchi di comprendere quale sia l’effettiva sostenibilità di un debito pubblico che nessuno sembra intenzionato a ridurre nonostante la preoccupante dimensione raggiunta.
Per prima cosa, la risposta ad una domanda fondamentale: con tutti i temi di cui si puó trattare in questo periodo, perché il debito pubblico italiano? Perché non Theresa May ed il Brexit, oppure il referendum costituzionale o, se proprio si vuole parlare di mercati finanziari, il caso Deutsche Bank?
Perché tutti questi fattori, che portano turbolenza nei mercati finanziari, e in particolare il referendum costituzionale, che agli occhi degli investitori istituzionali è un referendum economico, potrebbero scatenare la tempesta perfetta che, da un momento all’altro, potrebbe abbattersi sul nostro debito pubblico, da troppo tempo tenuto in scarsa considerazione.
Al momento non se ne sente parlare da un po’ per via del “mondo al contrario” dei tassi di interesse negativi, in cui, per depositare denaro bisogna pagare, e non riceverne ulteriore come, di fatto, è sempre stato. Tuttavia come detto, questa “quiete prima della tempesta” potrebbe essere fuorviante, e portarci a non considerare rischi che invece sono insiti in quel 134% di debito pubblico che, volenti o nolenti, ci portiamo sulle spalle. Anche perché, a ben vedere, potrebbe benissimo darsi che i tassi d’interesse non restino ancora a lungo nella parte del campo dove nessuno si aspettava rimanessero.
Per tutte queste ragioni, la discussione sul nostro debito pubblico non è solo di attualitá, ma addirittura lungimirante: se il “no” vincesse nel referendum di novembre, le ripercussioni sulla nostra economia potrebbero essere piú pesanti di quanto si possa credere (Ndr: Se qualche religioso grillino avesse perso la bussola e fosse capitato su questo articolo piuttosto che perdersi nei complotti del sacro blogghe, sappia che l’autore non ha ancora deciso cosa votare al referendum, perché questa personalizzazione del referendum non è affatto apprezzata; se fosse capitato un renziano, invece, si faccia qualche domanda, perché è proprio questo renzismo sfrenato che sta allontanando molti dalle urne; se fosse capitato un leghista, infine, son certo sia ancora intento a cercare di capire come si leggano quei segni in grassetto a inizio pagina. E’ il titolo, ma tanto non arriverá mai fino a qui per capirlo).
Al che, le domande a cui voglio cercare di trovare risposta, nel presente e nel successivo articolo, saranno, rispettivamente:
– come si è evoluto il nostro debito pubblico? Ne è valsa la pena?
– Sará sostenibile? È la nostra politica in grado di fare qualcosa a riguardo?
Evoluzione del debito pubblico in Italia e risultati economici
Il debito pubblico italiano al 30 aprile 2015 ha fatto segnare il massimo storico assoluto, arrivando a 2.194,5 miliardi di Euro. In relazione al PIL stimato per il 2015 rappresenta il 134,81%.
Come certificato dal sito dell’Irpef, negli anni ’70 il nostro debito pubblico si attestava attorno al 40%. Tuttavia sarebbe un dato non troppo significativo se non contestualizzato. Come evidenziato da questo studio dell’IMF (Fondo Monetario Internazionale), infatti, gli anni ’70 sono stati globalmente un picco di minimo per il debito pubblico nel mondo.
E non solo a livello di massa complessiva, ma anche a livello di numero di stati che avevano accesso al mercato del debito, come evidenziato dall’immagine successiva:
La sostanza è: non crediate che negli anni ’70 i democristiani avessero scoperto come risolvere i problemi dell’Italia, hanno solo governato durante la giusta congiuntura economica per potersi vantare di averlo fatto. Peraltro, come dimostrato in quest’altra immagine, tratta sempre dal medesimo studio IMF, non siamo mai stati dei campioni a gestire il debito pubblico, nemmeno se torniamo indietro di quasi cent’anni.
Come descritto nell’infografica, il colore dei paesi indica il livello Debito Pubblico/PIL, mentre la dimensione dello stato è proporzionale alla dimensione del debito stesso.
Ció che tuttavia appare chiaro, dai dati Irpef sopra citati, è che c’è una persona che piú di ogni altra si è impegnata per far gravare sulle nostre spalle il maggior peso possibile, e forse non è un caso che il responsabile non sia nemmeno sepolto in territorio nazionale: come avrete ben capito, stiamo parlando di Bettino Craxi. Durante i suoi governi, infatti, il debito pubblico italiano ha fatto un balzo dal 65% all’88,6%, un record poco invidiabile da “Manuale di economia: cosa non si dovrebbe fare se si governa un paese”. A chi poi, per fare l’avvocato del diavolo, volesse citare “gli anni ottanta” come simbolo dello sviluppo economico italiano, ricordo che il miracolo italiano è avvenuto tra gli anni ’50 e ’70 (ve lo puó ricordare perfino Wikipedia!) e che dunque negli anni ’80 ci si è limitati a sedersi sugli allori. La parte piú divertente, infatti, è scoprire che nei cinque anni in cui appare il nome di Craxi tra i quelli dei Presidenti del Consiglio, il PIL reale sia cresciuto (complessivamente!) dello 0,6%. Un’inezia, specie se comparato con gli anni successivi, in cui in tre anni (e non cinque) il nostro PIL reale è cresciuto del 12,6%. Quasi a dire con i numeri: “Craxi, resta in Tunisia!”.
Negli anni seguenti il debito pubblico italiano ha ricevuto altri scossoni, specie sotto i governi tecnici Amato e Ciampi, arrivando a raggiungere per la prima volta il picco del 120% nel 1994; tuttavia, almeno in questo caso, vi era uno scopo chiaro (entrare efficacemente nella futura Unione Europea) e, sia da un punto di vista politico che economico, è difficile biasimare i due tecnici appena nominati. Non solo: in quegli anni, la mancanza del cordone protettivo della Banca d’Italia espose il nostro debito alle manovre speculative degli investitori internazionali. Fu quanto accadde nel 1992, quando gli attacchi speculativi alla lira costrinsero l’Italia ad uscire dal Sistema monetario europeo e a svalutare.
Tra la altre cose, visto il calo del debito negli anni successivi, arrivato ad un minimo di 99,8% sotto il governo Prodi del 2007, si puó perfino arrivare a pensare che perfino l’Italia, terra di santi, poeti, navigatori e debito pubblico, possa in qualche modo fare qualcosa se governata con serietá.
E qui è impossibile non ricordare il succitato nome di Romano Prodi, infinitamente bistrattato perché è piú facile per molti parlare che pensare, e probabilmente per un’abilitá oratoria che non andava di pari passo con lo spessore politico. Durante i cinque anni in cui il suo nome compare nel susseguirsi dei Presidenti del Consiglio, in ben 3 casi su 5 il debito pubblico si è ridotto, e nei due casi in cui ció non accade, il suo nome compare vicino a quello del Silvio nazionale, per via dall’alternanza dei governi all’interno dello stesso anno. Quello stesso Silvio che riuscí nella tanto ardua quanto poco gloriosa impresa di far crescere il debito pubblico italiano del 10,1% rispetto al PIL in un solo anno, nel 2009.
La crescita del rapporto Debito Pubblico/PIL non è certo l’unico indicatore della bontá di un governo, ma se tanto mi dá tanto, chi ci ha messo in bocca la mortadella, e chi ce l’ha tolta, numeri alla mano non appare piú cosí complesso da capire.
Ex Studente di Finanza presso la Warwick Business School, ora lavora nel settore assicurativo in UK. Appassionato di politica ed economia, in passato ha militato tra le file del PD come Civatiano.
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Ex Studente di Finanza presso la Warwick Business School, ora lavora nel settore assicurativo in UK. Appassionato di politica ed economia, in passato ha militato tra le file del PD come Civatiano.
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