Ce l’avete un amico cinefilo? Quello che suona il campanello la domenica mattina e vi chiede cinque minuti per parlare di film. Magari gli rispondete “no grazie, a me piace Snyder” mandandolo per la sua via. In questo frangente tale amico sarò io e vi parlerò di un film abbastanza conosciuto, ma non tanto quanto il suo status di capolavoro del genere fantascientifico richiederebbe.
Si tratta di Dark City, del buon Alex Proyas (Il Corvo, Io Robot, Segnali dal Futuro).
Ce ne sono due versioni in giro: la theatrical cut e la director cut. Fate la vostra scelta, pillola blu o rossa. Prendete la blu ed una voce narrante vi spiegherà l’antefatto, derubandovi del magnifico senso di confusione che vi perseguiterebbe fino alle fine del film. Prendete quella rossa e rimanete nel paese della meraviglie, dove vi potrò mostrare quanto è profonda la tana del coniglio. Monoespressione, riflesso negli occhiali e prendete quella rossa. Fiuuuu.
Il film inizia, subito ci ritroviamo nella città, che tanto ricorda quella dei lavoratori della maestosa Metropolis di Fritz Lang. Ci risvegliamo, noi, insieme al protagonista John Murdoch (Rufus Swell),
nella camera di un albergo decrepito, in una vasca da bagno.
Fin da subito si capisce che sarà un film buio, tetro; il regista decide di utilizzare come (quasi) unica fonte di illuminazione gli oggetti di scena (un lampadario che oscilla dal soffitto, i lampioni delle strade, i fari delle macchine) dando una cornice noir azzeccatissima e ancora più rafforzata dall’ambientazione anni 40.
Celermente e con una palpabile confusione procediamo a vestirci, a capire cosa sta succedendo, finché il silenzio non viene rotto dal telefono. Dall’altra parte della cornetta il Dr. Daniel Schreber, un fantastico Kiefer Sutherland, fa fatica a parlare, come se l’importanza di quello che ha da dire fosse l’unica cosa capace di dargli fiato, “qualcosa è andato storto, la tua memoria è stata cancellata, stanno venendo a prenderti”.
L’ansia è in crescendo quando compaiono gli stranieri, figure alte, magrissime, vestite di nero e con volti pallidi che ricordano tanto il Nosferatu (di Murnau o di Herzog, come preferite).
Finalmente ci ritroviamo nelle vie della città, portate alla vita da una scenografia stupefacente, che a primo acchito potrebbe sembrare la Gotham di Nolan che piace tanto a noialtri, ma che è molto più claustrofobica, rimanendo altrettanto gotica. Ogni dettaglio è inserito con cura, non si sente l’artificialità del set e la camera non ha paura di spaziare e farci vedere il più possibile.
Il protagonista sa poco di se stesso, e noi sappiamo poco di lui, ma già dalle prime scene traspare un animo buono, timido forse, grazie ad un’ottima interpretazione di uno Swell all’epoca poco conosciuto, che pare sia stato scelto dal regista anche per questo. Proyas riteneva importante che Murdoch fosse interpretato da qualcuno che lo spettatore non potesse bene identificare con un certo tipo di ruolo. Gli altri personaggi, come ad esempio la moglie (Jennifer Connely) e l’ispettore (William Hurt) sembrano, nelle interpretazioni e nei dialoghi, poco sviluppati, passivi, una scelta a mio parere autoriale, che riflette l’incertezza intrinseca degli abitanti di Dark City e mette in luce la loro profonda differenza con il dottore: un personaggio reale, di cui si riesce quasi a sentire l’alito pesante mentre tenta di mettere in fila tre parole senza farsi mancare il respiro.
Non mancano inoltre degli effetti speciali ben ponderati e non abusati, che potrebbero sembrare un po’ crudi a quasi venti anni dall’uscita, ma che svolgono ottimamente il loro lavoro.
La sceneggiatura è eccellente, ed una delle scene più belle è proprio sul finale, dove di norma bisognerebbe già aver scoperto tutto per lasciare spazio ad esplosioni, kung fu e bacetti.
Non vi voglio rivelare praticamente niente della trama perché, parafrasando il buon Morpheus, nessuno può descriverla, dovrete scoprire con i vostri occhi e vivere parallelamente allo smemorato protagonista l’angoscia di non capirci un cazzo.
A voler essere brevi però, se volete vedere qualcosa di nuovo, rimanere affascinati dalle idee, dalla loro attuazione e farvi qualche domanda sulle implicazioni del finale, è un film che vi consiglio di non perdere.
A voler essere molto brevi è Matrix girato un anno prima, senza esplosioni, senza semiautomatiche e senza Keanu Reeves.
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