Visto che sto mese esco due volte dedico l’articolo d’oggi ad una semplice lettura.
“Bernardo Lotti teneva nella sua casa un orologio per ogni stanza, anche in camera: soltanto nel salotto quattro. Erano orologi vecchi, a pendolo, quasi tutti eguali meno che di grandezza, con il quadrante di legno e una ghirlanda di rose, a mazzi, dipinta attorno alle ore. Ve n’era uno, nel salotto, che sembrava nato lì dalla parete e poi cresciuto più di tutti gli altri. Erano venti o trent’anni che nessuno lo staccava più. I suoi pendoli di ottone pareva che dovessero pesare qualche quintale. Le sue lancette nere parevano lame di coltelli: facevano il giro come se avessero da tagliare e da uccidere; e aveva un tic-tac come un respiro. Il suo quadrante, prima verniciato di bianco, era di un colore indefinibile e sporco, con la ghirlandetta delle rose mezzo falciate dalla punta delle lancette lunghe: i tarli lo avevano forellato come tanti spilli. Quando batteva le ore, si stava ad ascoltare la sua voce; dimenticando di contarle. Era una specie di canto sommesso: e ci si aspettava che avesse pronunciato anche qualche parola. La ruggine dei suoi congegni aveva una dolcezza sentimentale. Gli altri tre orologi si udivano a pena, e pareva che avessero paura di quello.
L’orologio della camera era stato il più elegante: batteva le ore in fretta come se temesse di dar noia. In cucina, c’era il più brutto.
Ce n’era uno anche nella stanza d’ingresso; ma si scorgeva soltanto quando la porta delle scale era aperta. Era sempre stato in mezzo al buio, a quel muro, perché non c’erano finestre. Quando il Lotti andava a caricarlo, pareva che fosse sempre per sfasciarsi: qualcuno che entrasse a chiedere del Lotti, si voltava al fruscìo del pendolo.
Erano, dunque, in tutti, sette orologi.
Il nonno del Lotti aveva fatto l’orologiaio e quelli se l’era tenuti in casa per sé. Essi avevano continuato a vivere perché il padre del Lotti li aveva tenuti di conto, per ricordo e per devozione; e Bernardo aveva fatto lo stesso. Già, fin da ragazzo, li aveva caricati; e ora ci aveva fatto l’abitudine.
Il Lotti aveva sposato una bella ragazza, della stessa strada; i due figli gli erano morti quando non avevano ancora sei anni. La moglie a quaranta.
Il padre gli aveva lasciato una pizzicheria; ma egli, avendo poca voglia di lavorare, restato vedovo, l’aveva riceduta e ora viveva con una discreta rendita senza occuparsi di niente.
Si alzava sempre di buon’ora; andava a prendere il caffè sempre nella stessa bottega, anzi allo stesso tavolino, servito da un cameriere che lo conosceva fin da giovinetto, con le stesse tazze a doppia filettatura rossa: di quella d’oro non c’era rimasto più segno; con i cucchiaini di metallo ingiallito.
Faceva la sua passeggiata alla Lizza, il giardino di Siena, scegliendo più volentieri il viale delle carrozze; da dove passavano anche i soldati con la banda, i giovinastri e gli scolari che si rincorrevano strappando a manciate le foglie della siepe tagliata così eguale che da lontano pareva verniciata.
Egli girava per la Fortezza, attorno attorno alla caserma piatta e bianca, andando dentro tutte le rientrature dei baluardi a spicchio; camminando più lesto quando incontrava due innamorati che come lui non volevano farsi vedere.
Di lassù guardava la città, e riconosceva bene le due finestra della sua camera: erano quelle dove i tetti, dalla parte di San Domenico, pare che debbano cadere a precipizio, e le case non smettono più di fare le loro file; e ciascuna vuole essere quella dalla parte di fuori, in modo che se ne veda almeno un pezzo.
Finita la passeggiata, comprava il giornale; sempre il solito. E rientrava in casa a leggerlo con le due finestre di camera spalancate, che davano in una di quelle strade buie dove tre o quattro archi di seguito legano insieme le case.
Quando l’orologio del comune batteva mezzodì, il Lotti andava a mangiare a una trattoria in Piazza del Campo: la Trattoria della Speranza, quella con una mostra verde a lettere bianche. Mangiava sempre le stesse cose: quando invece mangiava una vivanda nuova, era una specie di festa; e beveva mezzo litro in più. Per solito, ne offriva sempre un bicchiere al limonaio che si sedeva su uno sgabello, all’uscio della trattoria, per riposarsi, tenendo il cestino ormai vuoto su le ginocchia, a rovescio, scuotendo con una mano le monete di rame dentro la tasca dei calzoni; con un filo di fieno o di paglia in bocca, rosso nel viso, e con qualche bolla di calore su i pomelli e in punta di naso; con i baffetti che parevano sempre più sottili, come due o tre setole, con gli occhi ardenti e luccicanti, e i capelli lustri di sudore; con un berretto troppo piccolo, messo su un orecchio, in maniche di camicia; la camicia azzurra e le scarpe rotte perché non gli facessero male ai calli; giovane ancora, ma mezzo pazzo: due mesi dell’anno li passava al manicomio. Allora, stando senza bevere liquori, guariva. Egli salutava il Lotti, come se avesse dovuto obbedirgli. Il Lotti gli rispondeva a pena, secondo il suo modo di fare, ma ci aveva piacere; e si sarebbe offeso, fin quasi da non andare più alla trattoria, se il limonaio fosse stato zitto.
– Oggi è bel tempo, signor Lotti!
E guardava su nel cielo, attorno alla cime della torre germinata dalle case di Siena. Il Lotti rispondeva, sorridendo:
– Davvero!
E si metteva a sedere, procurando di aver subito la sedia alla mano; per accomodarsela sotto.
Gli tremavano un poco le gambe; e s’era fatto anche più magro. Portava un bastoncino, il colletto alto, ma non ce ne aveva né meno uno che non fosse sfilaccicato; e anche i polsini. I suoi abiti erano vecchi: non voleva farsene uno nuovo, perché pensava di dover morire presto e quindi di portarlo troppo poco: non valeva la pena di spendere tanto! Lo diceva sempre, sorridendo, al limonaio; che scuoteva la testa e gli giurava che sarebbe campato più di lui.
Dopo mangiato, anche se era inverno, se ne andava a dormire; quando si destava, prima di rimettersi la giubba, faceva la visita a tutti i suoi orologi.
Con il sigaro acceso in bocca, si metteva a guardarli, uno per volta, anche mezz’ora per ciascuno: era capace di aspettare che la lancetta avesse fatto tutto il mezzo giro, e che l’orologio suonasse un’altra volta. Allora lo lasciava e andava dinanzi ad un altro, stando sempre ritto, benché le stanze fossero piene di sedie.
Gli orologi erano attaccati quasi su al soffitto; ed egli doveva stare con la testa alzata. Ma lui, guardandoli, pensava sempre a tante cose; e si ricordava di tutta la sua vita.
Qualche volta, guardando un orologio, si ricordava di una cosa per la prima volta; e allora quasi sbigottiva perché si sentiva vecchio. Abbassava la testa e camminava un poco da una stanza ad un’altra; non osando più guardare i suoi orologi. Ma la casa era ormai più di loro che di lui: anch’egli lo pensava. Quelli erano i padroni; ed egli pagava la pigione per loro.
Una volta, scostò un poco quello di camera: gli fece effetto a vedere come, sotto, la parete s’era conservata bianca e fresca: sempre lo scialbo del tempo delle nozze! Allora anche i mazzetti delle rose si ricolorirono, ed egli sentì proprio il loro odore: come quello del mazzetto che la sposa gli aveva messo da sé all’occhiello una mattina dei primi loro tempi. La bocca della sua sposa era ancor bella e i capelli neri; e non importava che il viso avesse sofferto, e il neo del mento fosse cresciuto troppo. E se il collo le si gonfiava, la pelle era ancora liscia; e, quando egli le vedeva le spalle, aveva mezza voglia di baciargliele; sebbene, poi, quando la moglie aveva finito per vestirsi, egli non ci pensasse più.
Tutta Siena sapeva che il Lotti aveva quegli orologi: anzi si credeva che ce ne avesse di più; perché quando il nonno gli era morto, la roba della bottega gli fu portata in casa. Ed egli non aveva mai voluto rivenderla.
Benché avesse fatto il pizzicagnolo con il padre, sembrava piuttosto un pensionato: era di modi signorili e distinti; e della sua bottega non parlava mai a nessuno. Quando, anzi, capiva che gli altri ci pensavano, egli arrossiva come un ragazzo; e troncava il discorso. Non perché se ne vergognasse, ma perché si vergognava di avere smesso prima di essere proprio vecchio. Provava, del resto, anche lui, una specie di rincrescimento; e si sentiva troppo solo; più solo che se non avesse avuto mai né moglie né figli. Qualche volta, questa solitudine gli dava da vero una disperazione melanconica; ma egli ne sorrideva, sempre gioviale e rimpettito e senza rimorsi. Gli pareva, giacché era rimasto vedovo così presto, di avere una responsabilità a conservarsi sano. Avrebbe voluto legare la sua esistenza ad una donna, proprio diventare un essere solo con lei, e la morte lo aveva costretto in vece a chiudersi in se stesso. E i gli perché gli erano morti? Si sentiva, dunque, come una forza a parte; più verso Dio che verso gli uomini.
Guardando in un quadretto lo stemma, a bande rosse e verdi dell’albero genealogico, gli pareva di tornare giovane e che i suoi antenati vivessero ancora. Quanti antenati nella famiglia Lotti! Una volta, uno era stato gonfaloniere della repubblica senese e un altro podestà in un castello della maremma. Bernardo sentiva un rimpianto orgoglioso, quando ci pensava. Ma era inutile, ormai! Però lo stemma, dove c’era perfino una filettatura d’argento, non poteva fare a meno di guardarlo! Perdinci! Andare sotto il gonfalone che ventava su la faccia, a passa un poco altezzoso! Il gonfaloniere doveva somigliarli, perché Bernardo aveva troppa simpatia e troppa preferenza per lui! Ma, ormai, nessuno ci pensava più; e anch’egli doveva smettere.
La tristezza più grande era quella di non avere né meno un figliuolo. Morto lui, la famiglia Lotti spariva. Non si capiva né meno perché una volta fosse venuto al mondo! Ora era in rigoglio altra gente, di cui si sentiva nemico, perché troppo differente a lui. C’erano giovani che avevano altre abitudini; e non capitava mai il caso c’egli li potesse intendere e divertirsi di quel che divertiva loro! E con la sensazione della propria giovinezza, allora, egli sentiva contro di sé un’ironia tra sentimentale e amara; che gli ricordava, chi sa per quale legame, la passione sconsolata per la moglie e il bisogno di amarla ancora. Con una gioia rimasta sempre viva, ma più sconsolante, dinanzi al contrasto del suo animo. Una gioia che non riesciva più ad accostarsi a lui; ed egli doveva contentarsi di sapere che c’era, come c’erano gli antenati; che, nel suo pensiero, restavano tutti fissi ed intenti a lui, perché non era capace di avere un figliuolo. Non gli davano forza bastante, dunque? Eppure sembrava che essi volessero fare di tutto per dare a lui un impeto a vivere di più!
Ma la morte prese anche Bernardo prima di dargli il tempo di avvedersene. Egli morì, di polmonite; e si comunicò per l’ultima volte come se in vece fosse andata una domenica mattina in chiesa. Vide il cielo fino all’ultimo suo respiro; e ascoltò lo stesso tutti i suoi orologi; anche quello dell’andito buio.
Si irrigidì con quella espressione di chi si volge a guardare quando ha urtato in qualche cosa che non aveva visto: sempre pronto a far la passeggiata e a pagare il vino al limonaio. Non avendo né meno parenti, due donne, pigionali, lo lavarono e lo vestirono; con la speranza di prendersi, quasi per compenso, i denari che egli doveva avere dentro il canterano e in tasca, benché sapessero che li teneva a libretto postale.
Allora, non essendo più caricati, ad uno per volta gli orologi si fermarono: quello di camera, proprio in faccia al letto, pareva un altro morto. L’ultimo fu il più grosso: un peso del suo pendolo scese fino a toccare il pavimento; ma l’orologio si fermò quando il Lotti era già stato messo al camposanto: il giorno dopo.
Il padrone di casa, anche per ripulire le stanze, li fece staccare tutti e li dette a quel rivendugliolo che sta nella piazza del mercato, dove vanno il sabato a far le spese i contadini.
Il limonaio non escì più dal manicomio.”
Il racconto, scritto da Federico Tozzi, si intitola “Gli orologi”. Cento punti a chi già lo conosceva.
29 Novembre 2016
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