2006, Eau Claire, Wisconsin.
Un borgo statunitense come tanti, all’estremo nord dello stato.
Uno di quei posti in cui difficilmente accade qualcosa di sensazionale, da cui chi cerca la fama parte per lidi migliori. Un barbuto venticinquenne vi fa ritorno dopo un anno, la band di discretissimo successo in cui credeva tanto dissolta, una storia d’amore finita. Potrebbe essere l’epilogo di un qualche racconto vissuto tra le lunghe strade americane, invece è un fortuito nuovo inizio per Justin Vernon, l’inizio di Bon Iver, da dieci anni protagonista della scena altern-folk mondiale, con qualcosa in più di una chitarra acustica.
Da una chitarra acustica, però, comincia la storia di Bon Iver. Da essa, e dal puro desiderio di fare musica non necessariamente in vista della pubblicazione (saranno infatti gli amici ad incoraggiarlo fortemente a rendere noti i suoi pezzi), ma sopratutto da una baita di legno tra i monti innevati in cui Justin si rifugia dopo il ritorno a casa, necessario, ma carico di dolore, depressione, senso di mediocrità.
Un vecchio Macintosh, qualche chitarra ed un microfono sono gli unici compagni del nostro, che approfitta dell’eremo forzato per risvegliare la sua vena creativa e sopperire alla solitudine suonando più parti di chitarra e voce, stratificandole (ispirandosi alle composizioni del Vienna Boys Choir,) con un uso quasi estremo del farsetto e di Autotune (molto semplicisticamente, il suo marchio di fabbrica). Dopo aver composto nove pezzi, l’album della solitudine è pronto: For Emma, Forever Ago inizia a farsi spazio sommessamente attraverso Myspace e vari blog, finchè, tra le decine di proposte da parte di label indipendenti, Vernon sceglie Jagjaguar che pubblica l’album nel 2008.
Quelle che Justin credeva acerbe demo diventano così un piccolo miracolo, se non di vendite (l’album arriverà 64esimo nella Billboard 200 e diventerà Disco d’oro solo nel 2013), di critica ed estetica folk. Con i suoi pezzi scarni, le chitarre strappate e maltrattate, il crescere e l’armonizzarsi di più voci, che poi sono una ed una sola, l’emergere dai testi di un animo tormentato dalle sofferenze e gli insuccessi passati, For Emma, Forever Ago va a catturare perfettamente quell’arte di arrangiarsi e il suono del nulla che hanno accompagnato Justin Vernon nel ritiro tra le nevi del Wisconsin.
Picchi del lavoro l’opening Flume, in cui echi eterei si dipanano sopra un classico e sentito giro da ballad, premettendo la diversità del lavoro, la rabbiosa filastrocca (resa famosa anche da una cover di Birdy del 2011) Skinny Love (“And now all your love is wasted, then who the hell was I?”), The Wolves (Act 1 and 2), quasi come ascoltare i Sigur Ròs alle prese con un acustico improvvisato davanti ad un falò.
La chiusura affidata a Re:Stacks (“[Re:] It’s ‘Regarding.’ People use it in letters and emails. It’s about pointing towards an idea, to amplify that this song is about the stacks. I mean, every song title does that in a way, but I just really wanted to point it out: this song isn’t the stacks, it’s about the stacks.”) è la fine del malessere: un delicato affresco su come la depressione possa far smettere di provare emozioni positive proprio perchè già sperimentate e quindi irrecuperabili, o esse stesse causa di sofferenza, che si risolve inaspettatamente nel sollevamento da essa in una semplice ammissione: “Your love will be safe with me”.
Il post-For Emma.. è costellato dai side project più vari. Oltre all’EP Blood Bank (2009), che già dimostra una voglia di implementare la struttura dei brani dell’esordio, tra nuovi gruppi di matrice blues/garage (Volcano Choir), operazioni benefiche (la compilation Dark Was The Night dei fratelli Dessner, militanti nei National) e collaborazioni a dir poco impensabili (Backing vocals in My Beautiful Twisted Fantasies-2010- e Yeezus-2013- di Kanye West), Justin Vernon sperimenta ed esplora, portando poi una sintesi delle proprie esperienze in Bon Iver, Bon Iver.
L’album omonimo rappresenta quasi un ennesimo nuovo inizio: Bon Iver non è più un solo musicista, ma diventa un gruppo di nove elementi, quasi un collettivo che Vernon usa per dare nuove voci alla sua voce. Non più acustico, ma decisamente elettrico: la musica e le strutture da impalpabili si fanno tridimensionali, una cattedrale barocca costruita ancora una volta sul gospel e sui cori, ma sorretta da molteplici incastri ritmici, batterie sintetiche, fiati, synth, crescendo e dissoluzioni che vanno a dipingere un affresco basato sui contrasti e sulle varie città che danno il nome ai dieci brani.
Dagli ostinati fraseggi di Perth e Minnesota WI, al fingerpicking di Holocene, alle tastiere ed ai sussurri di Hinnom, TX, fino alla conclusiva Beth/Rest (“Aren’t we married? I ain’t living in the dark no more, it’s not a promise, I’m just gonna call it.”) che pare uscita direttamente e sinuosamente dagli anni ottanta, tra sassofoni e tastiere soft e ricercate, pur non tralasciando il famoso farsetto, Vernon vi alterna toni più cupi, scuri, affogando la voce ed i testi (stavolta volutamente indefiniti nella voglia di non indugiare troppo in un songwriting personale) nei complessi arrangiamenti, usando la stessa voce come uno strumento musicale da adattare al contesto, eventualmente modulandola con vocoder e processori. L’album omonimo di Bon Iver è il disegno di un itinerario su una mappa, una collezione di mondi separati tra loro, proprio come le città di cui sopra.
Il 2012 porta con se una pausa della band, la quale, però, smentisce lo scioglimento. Bisognerà aspettare il 2015 per avere nuove notizie dei Bon Iver, prima col ritorno alla dimensione live, poi con la collaborazione al nuovo album del produttore James Blake (The Colour In Anything, 2016), nella splendida I Need A Forest Fire, uno di quei pezzi in cui i brividi iniziano al primo “uuuh” e non cessano fino alla conclusione. Ad essa segue in agosto 2016 la dichiarazione di un nuovo album, di una svolta elettronica, una tracklist impronunciabile, una copertina-e dei testi-zeppi di simbolismi presi dalle culture più disparate: forse per la prima volta nella storia della band, vi è hype più totale. Una costante e regolare rivelazione di brani lo precede: già paragonato alla svolta radioheadiana di Kid A, 22, A Million esce il 30 settembre ed inizia con un monito in sample: “It might be over soon”, poi paure, risoluzione (“where you gonna look for confirmation? And if it’s ever gonna happen, so as I’m standing at the station, it might be over soon”), ancora il sample. Silenzio. Archi. 22 (OVER S∞∞N) è il nome del brano.
Segue l’ossessiva 10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄, dal ritmo tribale e dalle voci trascinanti e totalmente sintetiche, un folle folk da dancefloor. Le armonizzazioni ipnotiche di 715 – CRΣΣKS, ottenute col Messina (synth custom creato appositamente dall’omonimo sound engineer della band, in grado di armonizzare contemporaneamente voce e tastiera), accompagnano morbidamente verso uno dei picchi dell’album: lunga 3.33, con gli Anni di Cristo nel titolo, 33 “GOD” è una esplosione di glitch indescrivibili che parte da un ben più modesto pianoforte, il quale permane per tutto il pezzo, unito ad un testo dalle molteplici interpretazioni che parla di dualità, del dolore da entrambi i lati di una relazione finita che porta alla realizzazione del singolo dalla coppia, il tutto unito a sample di Jim Ed Brown e Paolo Nutini.
L’animo più intimista, folk e barocco riemerge con 29 #Strafford APTS e 666 ʇ, in cui Bon Iver dimostra (forse anche a se stesso) di non essersi ancora del tutto staccato dalle proprie radici. 21 M♢♢N WATER introduce al capolavoro assoluto: 8 (circle) infatti è uno di quei pezzi perfetti, l’ inno pop/world che ogni artista sognerebbe di comporre: la voce di Vernon sovrasta platealmente pad di archi e synth (“I’m standing in your street now, no. And I carry his guitar. And I can’t recall it lightly at all, but I know I’m going on”) per ritrovarsi avvolta da cori ed armonizzazioni.
Il semplice gospel di 00000 Million va a chiudere il lavoro, ancora una volta il titolo dell’album incluso nel testo a chiudere il cerchio iniziato con 22 (OVER S∞∞N) per una traccia sentita, una chiusura modesta e silenziosa, pianoforte e voce. Un album difficile, a tratti-volutamente o meno-incompleto, 22, a Million è sepolto sotto simbolismi e neologismi sparsi che lo rendono a tratti pesante, indecifrabile (o ne favoriscono una esperienza soggettiva e personale, forse finale conseguenza della non specificità dei testi intrapresa con Bon Iver, Bon Iver), eppure risulta persino meno ardito del previsto, incerto com’è tra l’animo cantautoriale, pastorale, e quello elettronico del Justin Vernon di oggi. Contraddittorio, ma anche per questo affascinante e ricco di spunti, sicuramente da ascoltare a mente sgombra, da ascoltare più volte, lasciar decantare e digerire. Ad ogni modo un album da consigliare.
Impossibile prevedere un album simile ai tempi di For Emma, quasi impossibile prevedere cosa accadrà dopo oggi, a dieci anni dall’esordio, se il cerchio di Bon Iver si chiuderà o se la strada di destrutturazione sonora e di no-folk intrapresa verrà espressa fino alle estreme manifestazioni di essa.
Chitarrista per passione, studente di Medicina nelle restanti 23 ore della giornata. Se non esistesse la musica, probabilmente non avrei validi motivi per alzarmi dal letto al mattino; sfrutto questi spazi per dirvi la mia.
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