Ieri il governo statunitense ha annunciato di aver rinunciato alla causa contro Apple iniziata poche settimane fa per ottenere l’aiuto della compagnia californiana al fine di sbloccare l’iPhone di Syed Farook, uno dei due colpevoli della strage di San Bernardino. Una vittoria per Apple? Non esattamente, dal momento che l’FBI è riuscito ad ottenere i dati del telefono grazie all’aiuto di una terza parte, senza però rivelare come e con l’aiuto di chi: si suppone tuttavia che l’agenzia governativa sia stata aiutata da una società israeliana, la Cellebrite. In ogni caso, meglio rivedere come si è giunti a questo risultato.
Il 2 dicembre 2015 a San Bernardino, in California, Syed Farook e la moglie Tashfeen Malik irrompono nel centro per disabili locale aprendo il fuoco sulla folla, uccidendo 14 persone e ferendone 23, per poi finire uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia poco lontano. Poco prima della strage Malik aveva scritto un post su Facebook in cui giurava fedeltà ad Al Baghdadi, capo dell’ISIS. Il telefono di Farook, un iPhone 5C in seguito viene prelevato dagli inquirenti, che poco dopo ottengono l’accesso all’account iCloud di Farook, dove si trova il backup dei dati più recenti.
Più di due mesi dopo, a febbraio, l’FBI chiede l’aiuto di Apple per entrare nello smartphone dell’attentatore e recuperare i dati contenuti all’interno. Infatti il telefono è protetto da un codice di sblocco a 4 cifre, senza conoscere le quali è impossibile accedere ai dati contenuti al suo interno: l’FBI vuole recuperare questo codice con un attacco bruteforce, ovvero banalmente provando tutte combinazioni possibili fino a trovare quella giusta: peccato che dopo 10 tentativi sbagliati di inserire il codice i dati del telefono vengano automaticamente cancellati, diventando inaccessibili. L’FBI in particolare vuole che Apple installi una versione modificata di iOs (il sistema operativo mobile dell’azienda di Cupertino) che permetta di inserire da computer le 4 cifre del codice e che tolga il blocco dei 10 tentativi: di fronte al rifiuto di Apple, un giudice federale stabilisce che la compagnia sia obbligata ad aiutare l’FBI e la controversia finisce in tribunale.
Tim Cook, amministratore delegato di Apple, pochi giorni dopo in una lettera pubblica spiega perché Apple non intende cedere alle richieste, ovvero per proteggere i dati degli utenti e per evitare di creare un pericoloso precedente legale, permettendo al governo di chiedere alle compagnie produttrici di software di installare delle backdoor. Inoltre Apple teme che la versione modificata di iOs possa venire installata anche su altri dispositivi, compromettendo la sicurezza di tutti gli iPhone. Quest’ultimo timore in realtà è infondato: infatti il software incriminato (e mai realizzato) dovrebbe funzionare esclusivamente sul telefono di Farook, sfruttando il suo codice identificativo unico. Inoltre Apple avrebbe potuto estrarre i dati per conto suo e fornirli in seguito all’FBI. Al tempo stesso però cedere alla richiesta degli inquirenti avrebbe potuto legittimare altri governi, magari non particolarmente democratici, a chiedere l’aiuto dei produttori per violare i sistemi informatici, magari per controllare i dissidenti.
La scorsa settimana, il 22 marzo, ci sarebbe dovuta essere l’udienza in tribunale, che tuttavia è stata rimandata quando l’FBI ha affermato di avere trovato un altro modo per ottenere i dati: ed effettivamente ieri, dopo averli ottenuti, ha rinunciato alla causa.
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