Buongiorno a tutti.
Visto che è un tema che mi assilla parecchio nell’ultimo periodo ho deciso di parlarvi oggi di due simpatici gemelli che ci accompagnano per tutta la vita: il Tempo e la Morte.
Come amo fare, più che parlarvene direttamente lo farò tramite l’arte.
Ma prima di iniziare vorrei fare una piccola osservazione:
io non voglio fare lo pseudocritico o robe simili, voglio semplicemente farvi presente del materiale che secondo me merita attenzione e riflessione. Quindi non rompetemi le palle se son troppo sintetico quando parlo di un libro/film/dipinto/ecc., io voglio solo stimolare la vostra curiosità condividendo quello che è il mio sapere. Se volete leggere sintesi decenti andate su Wikipedia.
Passando dunque al sodo, vorrei partire da uno dei miei film preferiti: “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman.
Molti di voi l’avranno già visto, ma ne sintetizzo comunque la trama: c’è un tipo che, una volta arrivata la sua ora, sfida la morte a scacchi per continuare a vivere, ma poi perde e crepa.
Vi ho rovinato il finale? Fanculo, era sottinteso. Mica è un giallo.
Scherzi a parte, il protagonista è un cavaliere svedese appena tornato dalle crociate. A continuo contatto con la morte e il dolore (tra peste e repressione religiosa), il nostro eroe si ritrova a riflettere sulla vanità delle cose, sulla morte e a dubitare dell’esistenza di Dio (o quanto meno ne chiede una manifestazione). Ovviamente ridurre un capolavoro come questo a poche righe è alquanto brutale, ma per approfondirlo degnamente servirebbe più d’un articolo. In ogni caso qui il tema principale riguarda la Morte e Dio.
Ah, visto l’ateismo di fondo è inutile dire che i christianfags si misero a rompere i coglioni (anche perché il film uscì nel ’57).
Ma già che si parla di cavalieri tanto vale accennare anche ad un altro film rientrante nel tema d’oggi: “Il mestiere delle armi” di Ermanno Olmi.
Va innanzitutto detto che questo capolavoro ha una fotografia coi controcazzi (strano poi scoprire che il direttore della fotografia, Fabio Olmi, ha collaborato anche con Max von Sydow, o meglio l’attore che interpreta il protagonista de “Il Settimo Sigillo”). La trama poi è fantastica essendo un misto di elementi bellici, storici (ricostruzioni fantastiche) e filosofici.
Il protagonista del film è Giovanni de’ Medici, meglio conosciuto come Giovanni dalle Bande Nere. Un badass mandato al macello dallo Stato Pontificio contro le truppe di Carlo V.
La storia di fondo non è molto diversa da quella di Don Chisciotte: solo che il protagonista, in questo caso, combatte contro il Tempo che passa. Ma scoprirà presto che il mondo sta cambiando e le novità politiche e tecnologiche ci metteranno poco a spazzarlo via.
Il bello del trattare l’argomento d’oggi è che se ne sono occupati autori di tutti i generi e di tutti i tempi. Uno di questi è Seneca.
Vorrei dunque porre alla vostra attenzione “De brevitate vitae”. Poche pagine, però piene di saggezza e, nonostante siano passati circa duemila anni, molto attuali.
L’autore, tramite i suoi dialoghi, tenta di farci capire la preziosità del tempo con esempi concreti dalla vita quotidiana di personaggi pubblici e non. Il succo del discorso lo si trova già nel terzo paragrafo del primo capitolo:
“Non abbiamo poco tempo, ma ne perdiamo molto”.
E cosa vuol dire perdiamo?
Beh provate a pensare all’italiano medio: otto ore di lavoro al giorno solo per comprarsi una tv più grande, una macchina più bella o una casa più confortevole.
In pochi tengono conto del fatto che prima o poi si fanno i conti col passato. Uno di questi è il protagonista di uno dei più bei racconti che abbia mai letto: “La morte di Ivàn Il’iç” di Tolstòj.
Ora, so che tra di voi c’è qualche dostoevskijfag, ma a voi do un solo consiglio: lasciate da parte i pregiudizi e leggetevi questo capolavoro.
Sin dalle prime pagine traspare l’ipocrisia insita nel cuore della borghesia russa di fine Ottocento. Con un filo di ironia poi l’autore descrive la vita e la morte di questo funzionario pubblico di nome Ivan Il’iç Golovin.
Non sto qua a parlarvene ulteriormente. Va semplicemente letto per essere compreso. L’unica cosa che vi anticipo è che sul letto di morte si chiederà se è vissuto nel giusto e la risposta, essendo il suo esempio non molto diverso da quello dell’italiano medio contemporaneo, sarà negativa.
Ma cosa possiamo fare dinanzi all’immancabile destino di ogni essere umano?
Ognuno c’ha la sua risposta.
Quella di Dürer, per esempio, la si ritrova in una sua incisione: “Il cavaliere, la morte e il diavolo”.
Il cavaliere, quando è armato di fede (il cane) e ha il male (il diavolo) alle spalle, può andare verso la sua meta (la fortezza) affrontando con orgoglio e noncuranza la morte che, camminandogli affianco, gli mostra il tempo che passa (la clessidra).
Per quanto mi riguarda se si sostituisce la fede (atheism ftw) con la dignità, concordo pienamente con la soluzione di Dürer. Non possiamo fare altro che affrontare di petto il nostro destino. Per arrivare sereni sul letto di morte penso che servano tendenzialmente tre cose: Onestà, Onore e Dignità. D’altronde chi vive in pace con se stesso non può che vedere la Morte come la vede Bergman: come un pagliaccio.
Giusto per concludere vi porgo la citazione del mese. Questa volta si tratta di una poesia: “All’amato me stesso” di Majakovskij.
“se io fossi buio come il sole…
Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore
il ventre dimagrato della terra?”
A chi interessasse, l’intera poesia è diventata il testo di una canzone, chiamata appunto “Majakovskij”, de “Il teatro degli orrori”.
Gogglatevela e ascoltatevela, merita.
Ps. Vorrei precisare, per onestà intellettuale, che sono venuto a conoscenza di gran parte del materiale qui citato seguendo le lezioni di “Storia della tradizione classica”. Vorrei quindi ringraziare il professore, anche se non leggerà mai queste righe, per tutti gli spunti di riflessione concessi.
Regardz,
Ucnle Ardian.
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