Ne “Il secolo breve: 1914-1991” lo storico britannico Eric J. Hobsbawm mostra nel capitolo dedicato alle scienze naturali come il salto di qualità tra l’Ottocento ed il Novecento in merito al progresso tecnologico fosse essenzialmente l’estensione della ricerca scientifica su campi prima diretti “dall’esperienza, dall’abilità, dal senso comune e affinato, e al massimo dalla sistematica diffusione di conoscenze circa le pratiche e le tecniche disponibili“, riferendosi in particolar modo all’agricoltura e alla medicina. Sottolinea inoltre come le scoperte tecnologiche relative a questi ultimi abbiano “dominato il boom economico della seconda metà del ventesimo secolo e non solo nel mondo sviluppato; senza le applicazioni della genetica l’India e l’Indonesia non avrebbero potuto produrre cibo sufficiente per le loro popolazioni in grande crescita“. L’importanza della ricerca scientifica non ha dunque bisogno di spiegazioni. Ma riceve il genere di attenzione che merita?
La spesa, o meglio l’investimento italiano per la ricerca è calato del 39% in trent’anni, tutt’ora in lieve calo e con prospettive che vedono un aumento nel settore privato non profit e nelle imprese, ma un calo nelle istituzioni pubbliche e nelle università; mentre il numero di ricercatori rimane statico contro l’aumento degli stessi che fuggono all’estero per continuare o iniziare il proprio lavoro. I numeri rappresentano tuttavia una realtà contraddittoria: nonostante l’esigua percentuale di PIL reimpiegata nella ricerca (1,2% nel 2014 per un totale di 22,3 miliardi di euro), l’Italia si classifica ottava nel ranking mondiale in base al H index, un indice sviluppato dal fisico argentino Jeorge E. Hirsch dell’Università della California nel 2005 che tende a valutare la qualità e l’impatto della ricerca degli scienziati in base ad una relazione matematica tra il numero di pubblicazioni ed il numero di citazioni ricevute.
È nient’altro che una contraddizione il fatto che un paese come l’Italia riesca a posizionarsi così in alto nel ranking mondiale nonostante investa in ricerca meno della metà di quanto facciano Germania e USA, e addirittura 1/4 rispetto ad Israele, nonostante il numero di ricercatori (espressi in migliaia per milione di abitanti) sia di appena 2007 nel 2014 – contro i 4381 scienziati tedeschi, i 4252 inglesi, i 4019 statunitensi ed i 5386 giapponesi.
Una ben accetta contraddizione indice del fatto che i ricercatori italiani lavorano meglio impiegando meno risorse rispetto ai loro colleghi stranieri. Ciò viene confermato da un dato molto significativo: la richiesta di brevetti all’Italia – per milione investito in ricerca e sviluppo – è di poco inferiore a quella danese e olandese (primi in UE), eguaglia quella tedesca e supera quella statunitense e giapponese. E in una società globalizzata in cui è opportuno avere qualcosa da offrire, da esportare, per permettersi di importare ciò che manca, la ricerca gioca un ruolo fondamentale.
Cosa impedisce dunque all’Italia di compiere un importante passo in avanti per il quale non sembra manifestare problemi e che gioverebbe non solo alla vita dei cittadini ma anche alla sua immagine e credibilità? L’ostacolo maggiore è la fuga di cervelli – attirati all’estero da maggiori retribuzioni, borse di studio ed dalla maggiore probabilità di trovare un posto adeguato alla propria professionalità – non tanto per la quantità (il caso italiano non è unico al mondo) quanto per il contesto nel quale si inserisce questo genere di emigrazione.
La parola dell’anno, annunciata come da tradizione da Oxford, è “post-truth“ (citata anche da Matteo Renzi alla fine del discorso tenuto a palazzo Chigi durante la notte referendaria), la quale delinea il peso preponderante delle emozioni e delle convinzioni personali nella formazione dell’opinione pubblica a scapito dei dati oggettivi e reali. Basti pensare in generale alle scie chimiche, e più nello specifico alla vicenda della stimata ricercatrice ed ex deputata alla Camera per Scelta Civica Ilaria Capua, accusata di traffico e diffusione di ceppi di aviaria – ovviamente con lo scopo di arricchirsi con la vendita dei vaccini, ovviamente per conto delle Big Pharma. Nonostante la caduta delle accuse che sono tuttavia continuate, la ricercatrice si è dimessa dal ruolo di deputata, accettando un incarico offertole come direttrice al One Health Centre for Excellence for Research and Training dell’Università della Florida.
Niente di meglio che una nuova mentalità oscurantista, succube dell’idea che le menti scientifiche di questo nuovo millennio siano schiave di “poteri forti” e multinazionali amorali, per alimentare un’emorragia di cervelli che penalizza un settore già dagli standard elevati, e che proprio per questo non ha motivo (se non finalità politiche) di essere frenato.
“Si possono rilevare anche una piccola e temporanea emorragia di cervelli dagli USA durante gli anni del maccartismo, e più numerose fughe politiche in diversi momenti dall’area sovietica (dall’Ungheria nel 1956, dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia nel 1968, dalla Cina e dall’URSS alla fine degli anni ’80), come pure un costante flusso in uscita dalla Repubblica democratica tedesca verso la Germania occidentale.”
Eric. J Hobsbawm
È proprio il superamento di questa mentalità tutt’altro che astratta l’ostacolo maggiore alla ricerca in Italia. Consideriamo per esempio in ambito agroalimentare che un paese come il nostro non possa sostentarsi da solo (è l’elevato numero di abitanti rispetto alla scarsa disponibilità di superficie coltivabile che ce lo suggerisce), e che l’Italia riesca a permettersi di importare i beni alimentari che mancano (l’italia è grande importatrice di frumento e mais, sia per l’alimentazione umana che animale) grazie ad un export basato principalmente sul marchio Made in Italy, garanzia di alta qualità all’estero, per far fronte alla limitata capacità di aumentare le produzioni. In questo preciso contesto si inserisce il pregiudizio paradossale nei confronti degli OGM, capaci di ridurre significativamente le perdite e gli input nelle colture (a seconda dei casi), applicato con norme restrittive non solo nazionali ma anche europee che ne amplificano la contraddittorietà.
Di fatto, è permesso in agricoltura biologica l’impiego di un tipo di insetticida con principio attivo a base della tossina Bt prodotta dal batterio Bacillus Thuringiensis. Tuttavia, è impedita la coltivazione di varietà geneticamente modificate a cui è stato impiantato il gene del batterio che induce la produzione della proteina, tossica per gli insetti ma non per l’uomo*, all’interno della pianta impedendo alla stessa di difendersi da sola e aumentando l’uso di insetticidi, e dunque i costi per gli agricoltori.
Superare i pregiudizi nei confronti degli OGM iniziando dalla ricerca è nient’altro che un dovere imposto dalle circostanze (anche Papa Francesco si è espresso a riguardo un anno fa), a maggior ragione quando viene impedita la coltivazione pur continuando ad importarne. Ma soprattutto poiché l’anno scorso, volenti o nolenti, che abbia avuto un esito positivo o negativo, abbiamo ospitato a Milano l’esposizione mondiale sulle innovazioni in ambito alimentare cercando di rispondere ad un quesito inequivocabile: come si fa a produrre una quantità di cibo sufficiente a sfamare una popolazione mondiale che nel 2050 raggiungerà i 9 miliardi di individui?
*La proteina insetticida necessita di un pH basico per essere solubilizzata ed assorbita mentre nell’apparto digerente umano il pH è acido.
Presunto studente di Agraria all'Università di Bologna, esperto perditempo, mi diverto a viaggiare sul filo della pagaia.
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