Quando nel 2003 uscì “Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts” del duo francese M83 si venne a creare non poco scalpore tra gli ascoltatori e i critici musicali di musica indipendente. I due artisti avevano tirato giù dalla soffitta tutti i sintetizzatori analogici che possedevano e ne avevano risucchiato fino al midollo il calore, l’imperfezione timbrica e la fluttuante vivacità. Quei tappeti sonori sognanti contribuirono a gettare le basi di un nuovo genere (qualcuno lo chiamò neo-shoegaze) che diede alla luce alcuni dischi notevoli fino almeno al tramonto del decennio.
I primi anni 2000 furono, quindi, caratterizzati da un rinnovato gusto per la produzione analogica della materia sonora, che portò alla riscoperta di vecchia strumentazione e a una rinnovata produzione di sintetizzatori almeno parzialmente analogici. La storia della musica elettronica ha sempre corso parallelamente alla storia dello strumento iconico di questo genere musicale: il sintetizzatore.
Nel 1933 Laurens Hammond, un ingegnere meccanico statunitense, iniziò a lavorare su uno strumento musicale che potesse rappresentare un’alternativa economica al costosissimo e ingombrante organo a canne impiegato principalmente nella musica liturgica; pochi anni dopo l’organo Hammond venne messo in commercio. A partire dagli anni ‘40 all’interno di questi strumenti fu introdotto un particolare amplificatore rotante chiamato Leslie, che contribuì alla definizione del tipico suono ‘strascicato’ che ne determinò la fortuna. Fino almeno al termine degli anni ‘70, gli organi Hammond godettero di una notevole diffusione; il calore e la ricchezza dei suoni affascinarono i musicisti che si avvicinavano a questo strumento, che uscì rapidamente dal campo della sola musica solenne e invase numerosi generi musicali tra i quali il gospel, il jazz, il blues, il rock e la musica pop. Il successo dell’Hammond portò a un interesse crescente verso la produzione e l’utilizzo di strumenti cosiddetti elettrofoni, relegati fino a quel momento nel campo della ricerca accademica.
L’Hammond fu suonato da numerosi artisti storici, tra i quali Jon Lord, che sviluppò un modo estremamente personale di suonare l’organo e ne fece il proprio marchio di fabbrica; durante la sua carriera decennale con i Deep Purple, per ottenere un volume in grado di tenere il passo con la chitarra elettrica di Ritchie Blackmore collegò l’organo all’amplificazione Marshall, ottenendo un suono sporco che rimase unico negli anni.
La casa di produzione Hammond si dedicò in seguito allo sviluppo di un vero e proprio sintetizzatore analogico polifonico, il Novachord, che fu il primo sintetizzatore commerciale. Il costo elevato ne determinò uno scarsissimo successo e la produzione venne interrotta nel 1941; questa tipologia di strumenti rimase per almeno vent’anni relegata in pochi ambiti, tra i quali la produzione di colonne sonore per il cinema (un’arte che influenzò notevolmente lo sviluppo dei sintetizzatori).
Verso la fine degli anni ‘40 nei laboratori della Bell vennero realizzati i primi transistor. Più piccoli, economici e affidabili rispetto alle valvole le soppiantarono quasi completamente nel giro di pochi anni, cambiando per sempre il mondo dell’elettronica e permettendo la realizzazione di dispositivi più piccoli ed efficienti. Questa rivoluzione tecnologica ebbe notevoli conseguenze anche nel campo della produzione di strumenti musicali: negli anni ‘60 vennero introdotti nuovi sintetizzatori portatili in grado di essere utilizzati negli studi di registrazione ma soprattutto nelle performance live dai gruppi della neonata scena progressive. Le case di produzione che si resero protagoniste di questa evoluzione furono le storiche rivali Moog e ARP Instruments, che iniziarono la produzione di sintetizzatori monofonici (una nota per volta) a sintesi sottrattiva, che entrarono presto nel setup di decine di artisti e gruppi storici; la definitiva consacrazione arrivò a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 con l’avvento della musica elettronica.
Mentre alcune scelte commerciali pionieristiche ma troppo azzardate decretarono la bancarotta della ARP, Bob Moog e soci continuarono a produrre strumenti che divennero presto il simbolo iconico del sintetizzatore analogico; alcuni modelli storici sono stati rimessi in funzione e ancora oggi vengono realizzati sintetizzatori di marca Moog, oltre a numerose imitazioni e strumenti software ispirati ad alcuni modelli.
Nel corso degli anni diversi artisti hanno reso il Moog la base per le loro composizioni; tra questi si può ricordare l’italiano Federico Monti Arduini, che sotto lo pseudonimo di Il Guardiano del Faro pubblicò alcuni album basati quasi interamente sul sintetizzatore Moog. Un altro illustre musicista che fu uno dei pionieri del Moog in Italia fu Giorgio Moroder, innovativo compositore di musica elettronica e pluripremiato autore di colonne sonore per il cinema: “I Feel Love”, cantato da Donna Summer, fu uno dei primi brani di musica dance a includere una forte presenza del sintetizzatore. I maestri della musica cosmica tedesca utilizzarono ampiamente sintetizzatori Moog, assieme ad altri strumenti analogici, nei loro astrali tappeti sonori; Klaus Schulze, membro dei Tangerine Dream nonché uno dei maggiori esponenti del genere, impiegò diversi modelli di Moog negli album realizzati con il gruppo e da solista.
Le caratteristiche dei sintetizzatori analogici sono il calore e la naturalezza del suono; ogni nota è lievemente differente rispetto a un’altra e l’intonazione non è sempre perfetta. L’instabilità rappresenta forse la caratteristica più interessante e al contempo la problematica principale degli strumenti analogici; questa limitazione cominciò a diventare particolarmente ingombrante quando si tentò di produrre sintetizzatori polifonici.
La produzione su larga scala dei circuiti integrati, iniziata negli anni ‘70, fu una dei passaggi più importanti della Rivoluzione Elettronica e diede inizio alla cosiddetta ‘Era del digitale’. Anche il mondo della produzione di strumenti musicali, ovviamente, ne fu largamente influenzato: le potenzialità offerte dai microchip per la sintesi e la modulazione della forma d’onda erano superiori rispetto a quelle possibili con l’uso di sola circuitazione analogica. Fu chiaro fin da subito che la tecnologia digitale avrebbe permesso di porre rimedio ai famosi problemi di stabilità dell’intonazione di cui soffrivano i sintetizzatori analogici. I primi produttori di sintetizzatori digitali si resero conto che una generazione digitale del suono permetteva di ottenere forme d’onda perfettamente in fase tra loro e un’intonazione perfettamente stabile; tuttavia, questo portava a una perdita di corpo del suono. Così come in un’orchestra ogni strumento ha il suo caratteristico timbro, il suono prodotto da ogni oscillatore analogico è finemente diverso dagli altri e il suono che ne deriva ha una presenza maggiore.
Alcune case di produzione, tra cui la Roland, implementarono un sistema in grado di sfruttare i vantaggi forniti dalla nuova tecnologia digitale senza rinunciare alle caratteristiche del suono analogico: i Digitally Controlled Oscillators (DCOs). Tramite questi dispositivi la forma d’onda era generata analogicamente, ma il controllo della frequenza era affidato a un preciso sistema digitale; il Juno-106, uno dei primi strumenti con questa architettura, fu uno dei sintetizzatori di maggior successo della Roland ed è ancora oggi utilizzato da numerosi amanti del suono analogico.
Il dominio dell’analogico, tuttavia, stava iniziando nel frattempo a subire un duro colpo, assestato principalmente dalla nota casa di produzione Yamaha; la ditta giapponese acquistò nel 1974 i diritti su un nuovo algoritmo di sintesi sonora, denominata sintesi FM (frequency modulation), che permetteva la creazione di timbri più complessi. Otto anni dopo, nel 1982, la Yamaha mise in commercio il primo sintetizzatore interamente digitale di successo, il DX7; ben presto questo strumento divenne uno dei sintetizzatori più venduti di sempre e un’icona della musica pop ed elettronica anni ‘80, contribuendo a definire i canoni sonori di questi generi. A causa della complessità nella programmazione dei suoni, i musicisti ricorrevano spesso all’utilizzo diretto dei presets offerti dallo strumento: per questo motivo in molte hit di quegli anni si può chiaramente riconoscere il marchio di fabbrica del DX7, che assunse quasi un ruolo leggendario e spalancò le porte all’era dei sintetizzatori digitali.
La risposta delle altre grandi case di produzione non tardò ad arrivare: mentre la Roland propose il suo D-50, la Korg Inc. mise in commercio il suo primo sintetizzatore di grande successo, il Korg M1. Questo strumento impiegava sia la sintesi sottrattiva che la sample-based synthesis, ovvero una sintesi in cui la forma d’onda di base è un suono campionato; questa tecnica divenne popolare grazie all’M1 e, ad oggi, è praticamente onnipresente nei sintetizzatori digitali di nuova produzione. L’M1 superò sia il DX7 che il D-50 nelle vendite e diventò il sintetizzatore digitale più venduto dei suoi tempi: il suo successo fu dovuto alla ricchezza dei timbri offerta dalla doppia tecnica di sintesi, ma anche alla facilità d’uso e alle funzionalità offerte, tra le quali un sequencer MIDI e diversi effetti tra i quali riverberi, delay e chorus. Per la prima volta fu introdotto il concetto di workstation, ovvero un sintetizzatore che offre delle features aggiuntive in grado di aiutare nella produzione musicale e nelle esibizioni live.
Con i progressi nella tecnologia digitale anche il mondo degli strumenti musicali vide aprirsi nuove possibilità. Accanto alle workstations di successo come Korg Triton e Yamaha Motif nacquero nuovi sintetizzatori in grado di sfruttare le potenzialità del digitale e al contempo accontentare i tristi nostalgici del suono analogico: i cosiddetti virtual analog. In questi strumenti veniva utilizzata un’architettura digitale per emulare le sonorità tipiche dei sintetizzatori analogici; tra gli strumenti di maggior successo vi furono Nord Lead e Access Virus, che ancora oggi riscuotono un notevole successo e vedono la produzione di nuovi modelli. La serie Virus in particolare è stata ed è ancora oggi molto utilizzata da artisti techno e trance, ad esempio The Prodigy, Covenant e Paul Oakenfold.
A rendere complesso il quadro fu anche l’avvento dei personal computers negli anni ‘90; ben presto iniziò la realizzazione di software in grado di includere i principali algoritmi di sintesi sonora sfruttando una potenza di calcolo che non aveva precedenti. I software synthesizers erano potenti e relativamente economici; inoltre, grazie a questa tecnologia era possibile l’utilizzo di una vasta gamma di strumenti (non solo sintetizzatori) impiegando il solo spazio fisico di un computer e di una scheda audio. Accanto a questi nacquero le prime workstation, in grado di collegare tra loro i vari strumenti ed effetti in modo semplice ed efficiente; nel 1989 la software-house Steinberg rilasciò lo storico Cubase e già nel 1996 introdusse la prima versione dello standard VST (Virtual Studio Technology), che è ancora oggi il riferimento degli strumenti software per Windows. Numerosi soft-synth sono stati realizzati: tra i prodotti di maggior successo vi sono i potenti VST di Native Instruments, come Reaktor, FM8 o Massive, utilizzati anche da artisti noti.
Anche il mondo dei sintetizzatori hardware fu influenzato da questa evoluzione tecnologica: le moderne workstation digitali sono a tutti gli effetti dei computer dedicati alla produzione di suoni. I vantaggi sono numerosi, tra i quali la possibilità di avere più motori sonori all’interno di uno stesso strumento (filosofia seguita in particolare da Korg con i sintetizzatori più recenti, in particolare Oasys e Kronos).
Sin dalla diffusione dei primi sintetizzatori interamente digitali molti musicisti hanno continuato a preferire il calore e la pienezza dei suoni prodotti da strumenti analogici; anche nel variegato mondo della musica elettronica gli amanti dell’analogico si sono dedicati alla riscoperta di certe strumentazioni e sonorità che gli sviluppi tecnologici avevano messo in disparte, portando persino alla nascita di intere scene musicali, come già anticipato nell’introduzione. Diverse case di produzione hanno continuato lo sviluppo di sintetizzatori analogici, che siano rielaborazioni di vecchi modelli o strumenti completamente nuovi, lasciando intendere che il mercato è ancora vivo. Molti musicisti e produttori si sono disposti tra due schieramenti e il dibattito “analogico vs digitale” persiste ancora oggi.
In conclusione, è meglio un sintetizzatore analogico o uno digitale? La domanda è semplicistica e forse inutile; chi la pone si dimentica che davanti a ogni strumento c’è una persona che elabora il suono sulla base delle proprie esperienze musicali e della propria ispirazione. La soluzione dipende da quello che si sta cercando, che sia un suono d’orchestra, un basso pulsante oppure un soundscape cosmico. Chi è convinto di avere una risposta unica alla domanda non tiene conto del percorso di ricerca sonora affrontato dal musicista e riduce il tutto a un insieme di suoni che escono da un circuito.
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