Molti non lo sanno, ma la cosiddetta Mostra del Cinema di Venezia, in realtà, non si tiene a Venezia, bensì al Lido. Il nome stesso di “Venezia”, però, è come una pioggia dorata, che cade a cascata intorno a sé, e così il Lido di Venezia, come tante altre cose qui, brilla di luce riflessa. Il Lido è una striscia di terra che separa la Laguna veneta dall’Adriatico, a pochi minuti di navigazione da Venezia. Ha qualche canale, ma per il resto è una normale città balneare, magari un po’ più lussuosa. Di fatto si tratta di un’isola, pertanto arrivare al Lido non è mai facile. Così, durante la traversata, la Mostra del Cinema e il Lido sembrano quasi una terra promessa, un posto lontano, esotico e persino un po’ magico, dove puoi incontrare le star di Hollywood per strada, e dove, tutto intorno a te, si proiettano grandi film.
Ma è davvero Venezia, il più importante festival di cinema al mondo? La domanda non viene quasi mai posta, perché in genere si teme la risposta. Cannes ha un’aria molto più glamour, Toronto è più vicino all’industria americana. Quello di Venezia, che esiste dal 1932, è per lo meno il più antico festival del mondo – anche se, del resto, nessuno batte l’Academy Award, istituito tre anni prima. Quando si esalta la Mostra del Cinema, si fa sempre riferimento agli Oscar, evidenziando come ultimamente i film comincino la loro corsa all’Oscar proprio con una presentazione a Venezia: è stato così per Spotlight, per Birdman, per Gravity. Implicitamente, si arriva ad affermare che un festival è tanto più buono quanto più si accorda ai risultati dell’Academy Award.
Ogni anno, la Mostra del Cinema si prefigge di mantenere un delicato equilibrio tra le grandi produzioni americane e i cosiddetti film d’essai: a volte piccole perle, a volte meri agglomerati di velleità artistica, ma sempre accomunati dalla loro esclusione dalla grande distribuzione. Il vincitore del Leone d’oro, quest’anno, è stato The Woman Who Left, del regista filippino Lav Diaz: un film in bianco e nero, lungo quattro ore. Si è detto, probabilmente a ragione, che questo Leone d’oro mira soprattutto a far conoscere al pubblico le opere, estremamente di nicchia, di questo regista.
Le grandi e le piccole produzioni, dunque, sono le due facce della Mostra del Cinema; sul tappeto rosso, però, prevalgono nettamente le prime. Attori e registi sono portati, a bordo delle macchine degli sponsor, dall’Hotel Excelsior fino all’inizio della passerella – un tragitto di poche decine di metri. Lì, prima di tutto, vengono fotografati dagli addetti, in relazione alla loro importanza, quindi possono passare oltre e affrontare le orde di fan. Fan che ogni giorno, dalle prime ore del mattino, campeggiano lì fuori aspettando la sera, nella speranza di rimediare un selfie con il loro attore preferito. Alla fine, infatti, sono le celebrità di passaggio – molto più delle recensioni dei film – a finire sui giornali e sui telegiornali, e quindi a trainare la Mostra.
[L’autore di questo articolo ha seguito la Mostra per sette giorni, partecipando a un totale di ventotto proiezioni. A seguire, quattro microrecensioni per introdurre alcuni film consigliati.]
IN DUBIOUS BATTLE, di James Franco
James Franco, insieme regista e attore, firma questa trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di John Steinbeck del 1936. Durante la Grande Depressione, due attivisti di un non meglio precisato partito di estrema sinistra americano – James Franco e Nat Wolff – si infiltrano in un gruppo di braccianti, e organizzano uno sciopero per ottenere un aumento di salario. Franco ingaggia per questo film un folto cast di giovani attori, quali Nat Wolff (Colpa delle stelle), Josh Hutcherson (Hunger Games), Zach Braff (Scrubs) e Selena Gomez, ma si serve anche – seppure per ruoli più marginali – di alcuni attori più maturi, come Ed Harris (Il nemico alle porte) e Bryan Cranston (Breaking Bad). L’ispirazione è illustre, e il film, dotato di un ampio respiro, riesce nell’intento di entusiasmare lo spettatore, esplorando al contempo gli ideali più nobili e i lati più oscuri delle lotte sindacali.
LIBERAMI, di Federica Di Giacomo
Vincitore della sezione Orizzonti, questo documentario racconta il mondo degli esorcisti siciliani. Liberami adotta uno sguardo neutro sul mondo degli esorcismi: non nasconde l’inquietudine suscitata dal vedere una persona strisciare e urlare al solo contatto con materiali sacri, eppure mantiene sempre la distanza tipica dello scettico. È allo scetticismo che aderisce, ovviamente, lo spettatore, e anche gli stessi esorcisti a volte lo sono, ma qualche punta di inquietudine rimane. Per fortuna, poi, arrivano anche scene meravigliosamente comiche, come il fantastico esorcismo al telefono: «Esci da questo corpo! È andato? Bene, tanti auguri e buon Natale anche a lei».
AMERICAN ANARCHIST, di Charlie Siskel
È un documentario su William Powell, un signore che nel 1971, preso dall’euforia anarchica, scrisse un manuale su come costruire ord
igni, armi e silenziatori con materiali di fortuna. Il libro si chiama The Anarchist Cookbook (oggi si trova su Amazon), ed è stato trovato in casa degli autori di stragi quali Utoya, Columbine e molte altre. L’autore, nel frattempo, ha cambiato opinione e ha chiesto che il libro venga ritirato dalla circolazione, ma senza successo. Il documentario racconta la nascita del libro e le sue alterne fortune, e confronta Powell con la sua tremenda e indiretta responsabilità, i suoi sensi di colpa, e i suoi scarsi sforzi per fermare la diffusione del libro.
HOUNDS OF LOVE, di Ben Young
Esordio sul grande schermo per Ben Young, regista televisivo australiano, Hounds of love è una piccola ma apprezzabile produzione, e una delle migliori sorprese del festival. Una coppia (Emma Booth, Stephen Curry) rapisce giovani ragazze, le tortura per alcuni giorni nella loro casa e poi le uccide. Una di queste ragazze (Ashleigh Cummings), però, intuisce come la moglie sia psicologicamente succube del marito, il vero psicopatico, e cerca di metterli uno contro l’altro per fuggire. Il film è un grande thriller dall’ottima regia, e l’orrore per ciò che accade sullo schermo si mescola al piacere per certe superbe inquadrature. Al tempo stesso, Hounds of Love indaga i meccanismi attraverso i quali un marito possessivo e violento finisce per piegare la moglie al suo volere.
Tre di queste quattro recensioni, in conclusione, riguardano piccole produzioni. Va quindi riconosciuto che la Mostra, pur con tutto il suo glamour e i suoi flirt con Hollywood, continua ad avere il grande merito di diffondere film di qualità, che altrimenti non raggiungerebbero mai il grande pubblico.
Studente di Matematica per l'Ingegneria, appassionato di libri. Ha trascorso un anno in Alaska.
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