I vegetariani, ormai, sono tutt’intorno a noi. Le statistiche ci confermano che la loro percentuale in Italia è salita negli ultimi anni ed è arrivata al 7%. Ma è nella vita comune che più ci accorgiamo di questa tendenza, quando i nostri rapporti con gli animali diventano argomento di discussione, anche aspra, con amici e parenti che si sono scoperti vegetariani. È una moda passeggera o è una tendenza destinata a crescere? Ogni consumatore di carne deve essersi posto questa domanda, prima o poi. È la domanda di una maggioranza dominante che osserva con angoscia una minoranza in crescita. Ed è una domanda che si sono posti anche due scrittori: J.M. Coetzee e David Foster Wallace.
Nel 1997 Coetzee fu invitato dall’Università di Princeton a tenere due conferenze. Il contesto era quello delle prestigiose Tanner Lectures on Human Values, mentre il tema era a scelta del conferenziere. Coetzee, in quella occasione, invece di tenere una conferenza scrisse un racconto e lo lesse davanti a tutti; e il racconto parlava di una scrittrice che tiene una conferenza sugli animali. La differenza sembra minima, eppure questo semplice artificio metaletterario ha permesso all’autore di prendere subito le distanze dal dibattito tra carnivori e vegetariani.
Un dibattito violento e peggiorato dalle posizioni della protagonista, Elizabeth Costello. Nel racconto tutti credevano che lei avrebbe parlato di letteratura, invece parla degli animali e dice subito:
“Nel discorso che sto per farvi […] vi userò il riguardo di evitare il lungo elenco di orrori che ne punteggia la vita e la morte. […] Mi limiterò a ricordarvi che gli orrori omessi sono tuttavia il nodo centrale di questa conferenza. Tra il 1942 e il 1945 parecchi milioni di persone furono condannate a morte nei campi di concentramento del Terzo Reich. […] Permettetemi di dire con franchezza una cosa: siamo circondati da un’impresa di degradazione, crudeltà e sterminio che può rivaleggiare con ciò di cui è stato capace il Terzo Reich, anzi, può farlo apparire poca cosa al confronto, perché la nostra è un’impresa senza fine, capace di autorigenerazione.”
Si tratta forse della posizione più radicale ed estremista che un animalista possa assumere. Ma le argomentazioni della scrittrice sono sostenute da una robusta filosofia. La tesi di Elizabeth Costello è una critica radicale a gran parte della filosofia occidentale che, assumendo la ragione come chiave dell’universo, ovviamente pone l’uomo al di sopra degli animali. Gli animali sono assimilabili alle cose, mentre l’uomo è assimilabile a Dio. La sua tesi invece è che “la ragione non è né l’essenza dell’universo né l’essenza di Dio. Al contrario, mi pare che la ragione assomigli in modo sospetto all’essenza del pensiero umano. […] Vista da fuori, da un essere che le è estraneo, la ragione non è che una grande tautologia.”.
L’opinione di Elizabeth Costello coincide con l’opinione dell’autore? Probabilmente no, e in questo sta il genio dello scrittore. Coetzee sfrutta il metaracconto per allontanarsi dalla lotta e inserisce nella narrazione un ampio contraddittorio alle opinioni della sua protagonista. Un docente ebreo non si presenta alla cena in suo onore per protesta contro il paragone con l’Olocausto. La nuora della scrittrice la incalza di domande e la provoca: “è il genere di relativismo facile e superficiale che fa colpo sui novellini”.
Nella seconda conferenza, infine, Elizabeth Costello propone la sua alternativa alla ragione: l’empatia, cioè l’innata capacità umana di identificarsi in un altro essere umano, ma anche in qualsiasi altro essere vivente. L’uomo, secondo la scrittrice, ha in abbondanza le capacità necessarie per identificarsi negli animali, non importa quanto diversi. Ne consegue direttamente che non farlo significa chiudere il proprio cuore, in modo analogo a come facevano gli abitanti della Germania nazista.
La seconda opera di cui parliamo, invece, è un articolo di David Foster Wallace pubblicato sulla rivista Gourmet nel 2004. Si intitola “Considera l’Aragosta” e nasce come una recensione del Festival dell’Aragosta del Maine, un grande evento turistico-gastronomico dell’estate americana, “immenso, pungente ed estremamente ben pubblicizzato”. Wallace sfodera da subito la sua scrittura pirotecnica: descrive con meravigliosa ironia l’industria turistica americana e le sue piccole miserie, acquista un tono da documentario mentre riporta la classificazione scientifica delle aragoste, riporta la storia dell’aragosta come cibo e le ricette che la riguardano. È solo quando siamo ormai catturati dalla narrazione che arriva questa frase: “Un dettaglio così ovvio che le ricette quasi mai lo menzionano è che le aragoste devono essere vive quando le mettete in pentola. Questo è parte dell’attrattiva moderna dell’aragosta: è il cibo più fresco che ci sia”.
Su questa nota comincia un’ampia digressione sul punto di vista dei vegetariani. Il punto di vista di Wallace, come quello di Coetzee, cerca di non essere prevenuto e di riportare, semplicemente, alcuni interrogativi che sorgono spontaneamente. Qualsiasi opinione si abbia sull’animalismo, la cottura dell’aragosta mette di fronte ad alcuni fatti indubbi. “Anche se coprite la pentola e vi girate dall’altra parte, di solito sentirete il coperchio che sbatacchia e sferraglia mentre l’aragosta cerca di spingerlo via per uscire. […] L’aragosta, in altre parole, si comporta in modo assai simile a come ci comporteremmo voi o io se venissimo buttati nell’acqua bollente. Ed ecco allora una domanda: […] è giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?”
La questione dell’empatia di cui parlava Coetzee in Wallace trova applicazione nel caso pratico. L’analogia tra il comportamento animale e quello umano si fonda sull’empatia piuttosto che sulla ragione. La quale invece segue un percorso diverso e si chiede: come funziona la percezione del dolore nell’aragosta? Cosa ci dice la neurologia? Finora non abbiamo una risposta certa a questa domanda. Il dolore un’esperienza piuttosto soggettiva e ci risulta difficile determinare cosa sia il dolore per una creatura come l’aragosta, priva di corteccia cerebrale, ma provvista di un sistema nervoso decentralizzato lungo tutto il suo corpo. L’altra strada è empirica: “l’animale mostra un comportamento associabile al dolore?”.
Nella narrazione che ne fanno questi due scrittori, dunque, l’animalismo è una visione del mondo che sfida radicalmente il predominio della ragione e il paradigma dominante. Quella degli animalisti e dei vegetariani è una posizione difficile, che fatica a dialogare con la posizione opposta per il semplice fatto che utilizza criteri di conoscenza diversi. Con lungimiranza, sia Coetzee che Wallace fanno in modo di non prendere posizione nel dibattito tra vegetariani e carnivori. In queste due opere, lo scrittore recita solo il ruolo di colui che fa le domande. Qual è il ruolo della letteratura in tutto ciò? Forse quello di rivelarci le domande che noi stessi non sapevamo di avere.
Studente di Matematica per l'Ingegneria, appassionato di libri. Ha trascorso un anno in Alaska.
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