25 ottobre 1854, Balaklava
La battaglia dei russi contro le forze turco-franco-inglesi impazza ormai dalle cinque del mattino.
Sono già passate quasi sei ore e gli squadroni di cavalleggeri inglesi, sotto il comando di George Bingham, aspettano inerti, sotto il cocente sole del mattino, gli ordini del comandante in carica Lord Raglan. Sono all’imbocco di una vallata, tra due lunghe colline e un paio di chilometri davanti a loro, nella stessa vallata, ci sono le batterie di artiglieria.
I seicento cavalieri stanno osservando, increduli, ondate e ondate di innumerevoli fanti russi in uniforme verde riversarsi sulle posizioni di artiglieria inglese sulla collina e conquistarle.
Poco dopo arriva al galoppo, con aria di febbrile agitazione, il capitano Nolan, che porta l’ordine del generale di sferrare immediatamente l’attacco all’artiglieria russa. Nolan, però, è preso dall’eccitazione dell’imminente scontro, e alla domanda di Bingham “quali artiglierie dobbiamo attaccare?” risponde con un vago gesto di indicazione con la mano.
Nessuno sa però che il vero ordine è quello di attaccare le poche batterie appena perse al nemico per evitare che i russi le catturino e le portino via. Tutti capiscono di dover attaccare le batterie in fondo alla vallata, un ordine che corrisponderebbe a puro suicidio, ma gli ordini, Bignham sa, non si discutono.
Sono le 10:50 circa quando seicento cavalieri partono al trotto, sotto il fuoco incrociato dell’artiglieria russa, verso la morte.
Questo famosissimo evento è passato alla storia come “La carica dei Seicento“. Quasi la metà dei cavalieri morirono, molti altri furono feriti o catturati e solo pochi riuscirono a tornare sani alle file inglesi. Nolan stesso, l’involontario responsabile di questo massacro, a quanto pare fu tra i primi a schiattare.
Molti pamphleteers, pittori e succesivamente registi hanno dedicato opere ai prodi seicento che ebbero il coraggio di sfidare la morte in quella folle carica. Ne hanno cantato il valore, ne hanno cantato i sacrifici, ma nessuno ne aveva cantato la paura, il terrore, la disperazione.
Centoventinove anni dopo però, nel 1983, viene scritta, ispirata a questo evento, quella che IMHO è una delle più belle e tragiche canzoni sulla guerra mai fatte: The Trooper, degli Iron Maiden.
In questa canzone non viene semplicemente esposta la futilità della guerra, non è una canzone come “La guerra di Piero” di De Andrè, che serve a far meditare sulla tragicità e l’inutilità della guerra dalla posizione di un osservatore esterno, distaccato.
No.
“The Trooper” ti trascina, ti travolge in quella carica fatale. Ogni volta che la senti non puoi fare a meno di immaginarti gli squadroni di ussari e dragoni che galoppano, sciabole puntate in avanti, verso una nube di fumo, mentre palle di cannone e proiettili di mitraglia falciano decine tra uomini e cavalli. Li puoi vedere mentre corrono disperati sperando di raggiungere vivi il nemico e fargliela pagare per ogni colpo che hanno sparato loro contro. O se non altro per non morire invano, con almeno l’effimera soddisfazione di averne ucciso qualcuno prima di esalare l’ultimo respiro, di vedere gli occhi del uomo che toglie loro la vita. Il ritmo che ricorda il galoppare dei cavalli, l’apparente caos musicale, e la (astuta) scelta di raccontare l’evento in prima persona , portano l’ascoltatore a immedesimarsi in uno di quei cavalieri e nella frenesia della battaglia.
Penso di averla ascoltata ormai centinaia di volte, eppure ogni volta che sento gli ultimi due versi della seconda strofa sono preso dai brividi e capisco che non basta sapere di Sven Hassel che se la fa nei pantaloni durante un bombardamento sovietico; non basta l’immagine di soldati italiani difendere disperatamente una posizione, descritta da Mario Rigoni Stern, nè l’idea di Richard Sharpe e la sua compagnia leggera mentre caricano una colonna francese alla baionetta; A dire il vero, non bastano tutti i romanzi di guerra che ho letto (ed essendo questo il mio genere preferito ne ho letti tanti) per esprimere quello che questa canzone trasmette in soli quattro minuti.
Almeno questo è quello che penso io. Qui sotto vi lascio i versi della canzone e il link, così potete giudicare voi stessi.
You take my life but I’ll take yours too
You fire your musket but I run you through
So when you’re waiting for the next attack
You’d better stand there’s no turning back.
The bugle sounds – the charge begins
But on this battlefield no one wins
The smell of acrid smoke and horses breath
As I plunge on into certain death.
The horse he sweats with fear – we break to run
The mighty roar of the Russian guns
And as we race towards the human wall
The screams of pain as my comrades fall.
We hurdle bodies that lay on the ground
And the Russians fire another round
We get so near yet so far away
We won’t live to fight another day.
We get so close near enough to fight
When a Russian gets me in his sights
He pulls the trigger and I feel the blow
A burst of rounds take my horse below.
And as I lay there gazing at the sky
My body’s numb and my throat is dry
And as I lay forgotten and alone
Without a tear I draw my parting groan.
27 Luglio 2016
7 Novembre 2013
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