Il chitarrista (ma non solo) americano, celebre oltre che per abilità fuori da ogni canone, per uno stile per lo meno stravagante, ha finalmente rilasciato un nuovo album.
Mi sono sentito in dovere di recensirlo perchè erano anni, per la precisione sette, che l’artista non produceva nulla di nuovo, e il disco è davvero una grande scossa al mondo del rock/prog.
Con la solita copertina studiata, d’effetto e raffinata stile Vaiano, con una preview per niente pertinente al CD in toto (Gravity Storm), The Story Of Light si presenta come uno dei lavori più complessi, completi ed eclettici dell’artista.
GENERE: Progressive, Hard Rock, Fusion, Rock etnico
VOTO: 8,5/10
L’album si apre con la traccia omonima, The Story Of Light, ascoltabile cliccando sul link.
Forse la migliore del CD, la canzone risulta immediatamente molto Vai-esque: aperta da una voce di donna (il che non è nuovo per il chitarrista), si tratta di un brano strumentale assolutamente progressive e raffinato. In particolare si basa tutto su una progressione di accordi molto aperti suonati su una chitarra a sette corde, fino ad arrivare ad una sorta di bridge dove si aggiunge anche il synth.
Ciò che rende la canzone speciale è però l’assolo. Assolutamente un pezzo di musica imperdibile: la complessità dell’arrangiamento si scarnifica all’osso lasciando solo batteria e basso ad accompagnare la chitarra di Vai, che esegue una melodia fluida ed etnica, le cui sonorità sono state raggiunte dal raddoppiamento delle tracce di chitarra e dalla divisione del solo in sezioni, suonate una per volte.
Molto personalmente, benchè non sia il più grande estimatore degli assoli di chitarra, ho urlato all’attacco di questo. Vai all’apice.
Alla fine, la canzone ricorda un prog rock classico con qualche spunto anni ’80, ma i fan accaniti di Vai non potranno fare a meno di notare una certa somiglianza (assolutamente incolpevole e migliorata) con la traccia The Blood and Tears.
VOTO: 9/10
La seconda traccia è invece leggermente più heavy. Velorum si apre con un riff di chitarra senza nient’altro ad accompagnare, prerogativa che Vai metterà in pratica diverse volte in quest’album. Si tratta essenzialmente di una heavy ballad dove la chitarra sostituisce la voce; il tutto è condito da abbondanti archi e tastiere.
La canzone è musicalmente interessante, più classica della prima, ancora emerge lo stile di Vai (ricorda Taurus Bulba in alcuni passaggi), forse può emergere poco nell’album, ma si attesta comunque come una buona traccia d’ascolto. Interessante il bridge più pesante, con un riff scarno su un tempo particolare (ma cosa non lo è in Vai?)
VOTO: 7/10
Finalmente arriva la prima canzone cantata. Vai semplicemente riprende un pezzo gospel del 1930 e, con un coro e l’aiuto vocale di un redivivo Blind Willie Johnson (viene usata la traccia originale degli anni ’30) e di Beverly McClellan, lo ripropone in ambito hard rock. La canzone è certamente qualcosa da ricordare, per l’originalità e la buona resa. Divisa in due tracce, John The Revelator (Books of the Seven Seals) è nient’altro che un buon pezzo: l’arrangiamento e la resa quasi ottantesca mettono in secondo piano un assolo probabilmente di maggior resa dal vivo, ma i trick di Vai con la leva del tremolo (che fa “cadere” il suono) rendono il tutto davvero interessante.
VOTO: 8/10
La quinta traccia dell’album farà allora contenti quelli che chiedevano dove fossero andate a finire le sonorità esotiche del Vai più soft. Creamsicle Sunset, essenzialmente una lunga ballata lenta e pulita, coniuga perfettamente suoni quasi stile sitar (indiani) a sonorità addirittura hawaiiane (Vai dice di aver concepito il tutto pensando a degustare un sorbetto all’arancia su queste isole. E’ pazzo.). Alte probabilità di far addormentare l’ascoltatore, la canzone è più un riempimento per dare ancora più completezza all’album: non che non sia molto orecchiabile, semplicemente forse è troppo scarna per potersi confermare come masterpiece.
VOTO: 6,5/10
Gravity Storm, come anticipato sopra, è il primo singolo dell’album, usato come anticipazione. Molto pesante (forse la più pesante), si apre come al solito con la chitarra senza base, non c’è molto da dire se non che si tratta di un brano classicamente Vaiano, meno peculiare del simile Velorum, forse più difficile ma melodicamente meno impressionante. Anch’esso deve avere un bell’impatto dal vivo, vista la scenicità e la difficoltà degli assoli.
VOTO: 6,5/10
Particolare già dal titolo, la settima traccia è invece totalmente differente dalla precedente. Anch’essa molto lenta, Mullach a’tSi (se qualcuno mi spiega senso, funzione e pronuncia della S maiuscola in mezzo alla parola sarei molto grato) è ispirata alle ninna-nanne celtiche. Ma sopra un accompagnamento etereo come in Creamsicle, Vai aggiunge una chitarra cantante, un po’ stile Gilmour dei Pink Floyd. Personalmente la ritengo migliore di Creamsicle, perchè più concreta, forse meno tirata e con suoni più gradevoli. Notevole l’arpa.
VOTO: 7,5/10
La prossima canzone è una ballata assolutamente d’atmosfera, spaziale sia nelle sonorità che nelle tematiche. The Moon and I unisce gli ormai noti suoni sitar a ritmi incalzanti e psichedelici che potrebbero ricordare Bjork. E’ la prima traccia dove la voce di Vai emerge bene: registrata grazie a una jam ad Atene, anche la parte cantata è assolutamente notevole, specie per le melodie mai banali ed azzeccatissime.
L’assolo, anche a detta di Vai, è uno dei suoi meglio riusciti. Personalmente vi antepongo ancora quello della prima traccia, ma certamente si tratta di un vero capolavoro, e questo è altrettanto lungo e complesso: si estende su una base molto floydiana, ma senza prendere stavolta quasi nulla dall’emozionale David Gilmour: è tutto un gran virtuosismo mai pacchiano.
VOTO: 8,5/10
Passiamo a Weeping China Doll. Ancora l’intro di sola chitarra a preannunciare un brano abbastanza heavy; in realtà si colloca in una canzone hard rock/prog molto melodica. Trovo l’intro assolutamente spettacolare, proprio la melodia è stupenda -melodia che sarà ripetuta per quasi tutto il brano, per fortuna…Assolutamente notevole quando la si riprende in versione lead.
La canzone è di certo una delle migliori dell’album, condita con i soliti ingredienti progressive e atmosferici di Steve Vai, con il solito stile fra l’esotico e il prog metal più raffinato. Che dire, qui serve soprattutto un ascolto, e un po’ di sano stupore per le abilità compositive ed esecutive del chitarrista.
VOTO: 8,5/10
Racing the World si apre ancora una volta con la chitarra senza base…Dichiaratamente Satrianesca, e cioè dichiaratamente più rock-blueseggiante (pur rimanendo ben saldi nell’ambito heavy prog Vaiano), la canzone viene usata per bilanciare l’album. Niente da segnalare, bella come tutte in quest’album (e non lo dico da estimatore, ma sinceramente colpito), non di spicco ma certamente dona effettivamente eclettismo.
VOTO: 7,5/10
La penultima traccia è una ballata soft, acustica (con le solite linee elettriche che però fanno capolino) chiamata No More Amsterdam (Vai ci teneva a dire che non è scritta per favorire l’uso di droghe, ndr) . Scritta a quattro mani con Aimee Mann, la quale canta anche nel brano affiancando Vai -probabilmente non nel modo migliore. Come al solito interessanti le imprevedibilità delle melodie, che anticipano un ritornello forse un po’ più classico. Il tutto si trova sotto migliaia di corde che vibrano, dalla chitarra acustica al sitar alla dodici corde, all’elettrica del solo.
Molto interessante come ballata, per chi cerca una canzone rilassante ma mai banale.
VOTO: 8/10
Si conclude il tutto con Sunshine Electric Raindrops. La canzone, più pop, fu inizialmente scartata per poi essere ripresa da Vai e fatta una delle sue preferite. In effetti il riff ricorda non poco le chitarre distorte delle band hard degli anni ’80/’90 ma anche ’70 (basti pensare ai Van Halen), e in Toto (e la maiuscola non è a caso!) si tratta di un pezzo molto molto orecchiabile. Trovo che le atmosfere del synth diano quel qualcosa in più alla chitarra comunque aperta della canzone. Più scarna ma ancora d’effetto.
VOTO: 7,5/10
FINALE:
Si tratta forse del miglior album dell’artista. Certo, ha l’abitudine di spargere i capolavori un po’ quà e là fra i lavori, però questo ne è pieno.
Certamente per gli amanti del genere, ma anche, molto tranquillamente, per chiunque altro non si fermi alla sola elettronica o alla putenza del rap. Non vedo come si possa non apprezzare quest’album, se devo essere sincero.
All hail , IMDI rockers!
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