22/01/2013 è la data ufficiale dell’uscita del sesto album solista di uno dei musicisti più apprezzati sul pianeta terra, forse il session-man più prolifico di sempre, fondatore di quella riconosciuta come la migliore band di musicisti di sempre, nonchè leggenda del chitarrismo, del rock e del progressive.
Steve Lukather, chitarra dei Toto dal lontano 1976, firma un nuovo disco al di fuori della band di Los Angeles, uscito con l’etichetta Mascot e in collaborazione con il produttore e tastierista CJ Vanston.
Il disco si attesta come il punto di arrivo e assieme di svolta dei due precedenti, e cioè Ever Changing Times (dalle caratteristiche prog, hard jazz e rock dissonante) e All’s Well That Ends Well (più soft, di un prog melodico e un rock spesso tendente al pop), ma anche come vera e propria Transizione nella vita del chitarrista.
Si tratta della summa del suo percorso verso la pulizia. Non che fosse una rockstar maledetta (un sessionman da 1300 dischi diversi su cui ha messo le mani non può permetterselo), ma problemi psicologici (lutto per la perdita della madre e senso di inadeguatezza) e qualche ricordo delle sbronze passate -ancora, non è definibile alcolista- hanno portato a questo.
La transizione è in tutto, e, pur rimanendo l’album nelle corde di Luke, si vede. La vita più sana e pulita hanno portato a un writing molto più maturo di qualsiasi precedente opera: in Transition troviamo finalmente testi degni di questo nome, non solo più funzionali ad “accompagnare” la musica (anche se mai banalmente, si pensi alle hit con i Toto). In realtà leggere ogni testo di ogni track in Transition è una goduria, e uno spunto di riflessione.
Anche per quanto riguarda il lavoro più musicale abbiamo un Lukather ridotto alle origini, e assieme sublimato: la voce è ancora quella da ragazzo, addirittura meno roca (questo a causa di lezioni di canto di Gary Catona), e il chitarrismo appare più organico ed essenziale.
Non mancano assoli complicati e riff in tempi particolari, ma troviamo un suono più pieno. Probabilmente il miglior suono uscito da una chitarra elettrica, e questo è frutto della ricerca maniacale che Lukather ha sempre effettuato: pare che la pace dei sensi sia arrivata con nuovi pickup passivi chiamati Transition, uniti ai vecchi EMG attivi della sempreverde chitarra MusicMan Luke, e il costosissimo amplificatore Bogner Ecstacy. Saranno termini un po’ tecnici, ma si tratta di attrezzature assolutamente fuori dal mondo, e quello che ne deriva è un suono pieno di tutte le frequenze, coadiuvato da un tocco esperto e da un uso della dinamica e delle sfumature tonali che farebbero invidia al miglior Jeff Beck.
La fama e il talento del chitarrista dell’album più venduto di sempre (Thriller di Michael Jackson) hanno poi portato naturalmente alla collaborazione con veri mostri sacri -come lui- della musica mondiale. Così abbiamo, affiancati ai “soliti” che lo seguono, e cioè il sovrumano tastierista prog/jazz Steve Weingart (consiglio a tutti di controllare quanto minchia è bravo), la bassista/corista Renèe Jones e il batterista Eric “Mr.Chocolate” Valentine, personaggi come Leland Sklar (bassista leggendario, da Phil Collins ai Toto passando per Donna Summer), Nathan East (altro nel podio dei bassisti, anche lui membro dei Toto, e vanta collaborazioni con il G3, Whitney Houston, Elton John, Eric Clapton, Michael Jackson, ecc.), la celebre Tal Winkelfeld (bassista con Allman Brothers, Jimmy Page, Lee Ritenour, ecc.). A questi si aggiungano percussionisti come Chad Smith (Red Hot Chili Peppers, Chickenfoot), Lenny Castro, Greg Bissonnette ed altri, e coristi da ogni dove, oltre alla collaborazione del chitarrista/cantante pop Trev Lukather.
Andando track by track, apre l’album la canzone Judgment Day, con un intro atmosferico e accordi dissonanti da jazz misto a prog.
La canzone si attesta fra i generi del prog, rock e jazz. Emerge il nuovo stile di canto di Luke con un registro basso molto preciso e inedito. La voce è più pulita, la batteria progredisce in una maniera molto interessante, il testo non è banale -parla delle ingiustizie e delle accuse infondate- e il ritornello entra subito in testa.
La canzone è davvero meritevole, e la parte solistica è spettacolare: due gioielli di chitarrismo. Consigliata su tutta la linea, a tutti.
La seconda track, Creep Motel, è un blues in 12/8 à la Steely Dan, forse un po’ più complesso. Sempre presenti gli spunti progressive e qualche bella melodia dissonante tipica di Lukather, la canzone, che tratta metaforicamente di una rivalsa psicologica sulle malelingue (tema a quanto pare caro a Lukather), presenta strofe particolari e non banali, sempre attestate nell’ambito blues. In particolare è da notare il ritornello con la parte solo chitarra e voce “As you taste the bitter pill you know so well.”
Altro gran pezzo, sinceramente. E per quelli in cerca di chicche, forse l’unica registrazione ufficiale a contenere un solo di Leland Sklar!
Probabilmente qua, lo avverto, Lukather deluderà. Once Again, terzo pezzo nell’album, è una ballad melodica in pieno stile Toto anni ’90, di non grosse pretese.
In effetti non starebbe a disagio come pezzo riempitivo in un album qualsiasi della band di Los Angeles, che ci ha abituato a ballad melodiche e struggenti. La verità è che, pur essendo un pezzo molto orecchiabile, musicalmente ben curato, e anche liricamente (parla dell’amore perduto in termini interessanti);non emerge nell’album. In realtà non è quello che vorremmo sempre sentire da Lukather, anche se in ogni album ha posto pezzi del genere (con risultati a volte spaziali, come Borrowed Time in Candyman, a volte meno perfetti, come ora.)
Il quarto pezzo si chiama Right the Wrong ed è una hard ballad atmosferica che si distanzia di più dallo stile Toto per prendere in pieno lo stile Lukather di pezzi ENORMI come Don’t Say It’s Over. E si conferma essere non meno enorme. Forse non diventerà mai una hit storica, ma questo solo per la (fortunata!) sottoesposizione mediatica del chitarrista, a cui le masse preferiscono Rihanna e cazzacci vari. Trev Lukather dà il suo apporto nella scrittura del pezzo, e anche nell’arrangiamento, suonando il lick di chitarra muta. Chad Smith si siede dietro la batteria e completa un quadro reso sublime soprattutto dalle atmosfere di CJ Vanston e dall’assolo di Lukather.
Davvero un gran pezzo, ritornello memorabile.
Forse la miglior sezione dell’album è completata dal quinto pezzo, la titletrack Transition. Si tratta di una prog suite di circa 6 minuti con Tal Winkelfeld al basso.
La canzone, strutturata un po’ come un vecchio pezzo degli Yes mescolati ai Pink Floyd, si apre con un intro à la Jeff Beck per poi esplodere nel main riff, difficile quanto importante, un veloce passaggio di chitarra in 7/16. Dopo il fade arriva la parte centrale della canzone, un pezzo atmosferico dove spicca l’assolo di Lukather ma anche una perla di Steve Weingard. Personalissimo e LETALE assolo di tastiera per cui andrebbe solo ringraziato il Signore per averci donato talenti del genere.
Cantato di riminiscenza Floydiana, ritorno alle origini. Forse un po’ troppo corta.
Last Man Standing è un pop rock leggero che, come Once Again, difficilmente colpirà il fan. In effetti appare piuttosto scontata musicalmente (benchè, come sempre, molto orecchiabile e dal testo importante). Le atmosfere, dichiaratamente tributate a Joe Walsh, ricordano anche Joe Bonamassa. Definita dallo stesso Lukather “transitional track”, porta dal buio alla luce, con un testo più ottimista di un uomo finalmente soddisfatto di sè.
Do I Stand alone, ancora un pop rock più impegnativo, ricorda l’album Mindfields. Come chitarrismo siamo nell’eccelso, come canzone abbiamo un ottimo esempio di track da radio che sia però anche riconoscibilmente un’ottima canzone. Fortemente politica e critica, non lesina di trattare temi cari al chitarrista come lo strapotere dei media e di Internet e la decadenza moderna. In questo caso, la track è un lampante esempio di come anche non attestandoci in generi teoricamente complessi, un buon arrangiamento è un buon arrangiamento.
La penultima canzone, l’ottava, è un altro 12/8 in stile Joe Cocker. Non è stato scritto da Lukather, che lo ha solo modificato secondo sue specifiche -è stato commissionato a CJ Vanston. In realtà la differenza di mano non si sente molto, c’è un buon feeling hendrixiano e Nathan East al basso completa il quadretto. Probabilmente se Joe Cocker avesse ingravidato Jimi Hendrix sarebbe uscita una cosa del genere…E il risultato è ottimo.
Chiudo la recensione e l’album con Smile.
Smile è l’ultima canzone, che, come Lukather ci ha abituato, è una ballad strumentale struggente con riminiscenze di Jeff Beck. Lukather maestro della dinamica dedica questa cover di Charlie Chaplin alla madre, deceduta pochi anni fa. Registrata live insieme a Steve Weingart, appare migliore dell’originale per le sensazioni che veicola. Il suono della chitarra, in questo caso in primissimo piano, rimane la stessa voce degli angeli che ha accompagnato tutto l’album, sublimandone così le caratteristiche.
Alla fin fine l’album risulta un pieno stile Lukather senza però essere rivoluzionario. Non si tratta del masterpiece di una vita, è semplicemente la continuazione dei due precedenti. Chi si aspettava un lavoro maestoso e sconvolgente probabilmente rimarrà deluso, ma è anche il modus operandi di Lukather, dunque lo si accetti così com’è.
22 Maggio 2017
2 Maggio 2017
19 Marzo 2017
11 Marzo 2017
23 Febbraio 2017
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.