Forse non lo sapete, ma per qualche motivo ho preso la discutibile decisione di intraprendere un viaggio introspettivo nella cultura popolare degli anni ’90 e ora, per non far la solita figura del cazzaro inconcludente, sono costretto a scrivere qualche altro articolo.
Comunque, la prospettiva che in questo articolo introduttivo ho dichiarato di adottare non è mitizzante ma neanche deprecatoria, quanto, qui lo dico e qui lo nego, O G G E T T I V A. Va beh, abbassate le sopracciglia, so già di non riuscirci, tranqui, non ho fatto 6 anni di studi universitari umanistici per nulla (inb4 mc donalds). Comunque, in quest’ottica, prima o poi so che dovrò mettermi a fare le pulci ai miei miti d’infanzia o di adolescenza, quindi tanto vale cavarsi il dente il prima possibile. Mi tocca quindi parlare anche di un gruppo che per molti è quello delle canzoni da depressi, per altri è quello col pelato che faceva il fratellino di Super Vicky (leggenda metropolitana tanto esilarante quanto falsa), ma per un gruppo significativo di ’90s kids, tra cui il sottoscritto, è stato colonna sonora di non pochi momenti memorabili della propria esistenza, o quantomeno di serate passate nel buio della cameretta a tirare fuori un mondo da una manciata di canzoni.
Parliamo quindi del gruppo più significativo degli anni ’90. Chi ha detto “Eh? Ma non sono i Nirvana?” è libero di andarsene a fare in culo. Perché uso questa perifrasi da fanboy per definire gli Smashing Pumpkins se avevo premesso che avrei provato a tenermi, almeno in partenza, obiettivo? Beh, sto solo dicendo la verità, magari non da un punto di vista tecnico/virtuosistico, ma sicuramente da quello dell’immaginario culturale. E così ora sono autorizzato a spremervi i maroni/le ovaie per spiegarvi il perché di questa sparata. Innanzitutto, parliamo di dati meramente anagrafici (con una premessa che non dovrei fare: sono dell’opinione che la voce di Wikipedia sia stata vandalizzata e che il singolo che sentite su Virgin Radio, come qualunque roba uscita dal 2007 in avanti, non siano da considerare degli Smashing Pumpkins. Discorso lungo, ma datemelo per buono dai); la band cicaghese parte nel 1991 con un Gish graffiante ma ancora un po’ sporco di latte e grunge e chiude nel 2000 con un Machina con ancora i suoi bei momenti ma troppo post-rock, post-malinconico, post-gotico e post-qualcosa per restare memorabile. E’ nel bel mezzo degli sgangherati 90’s quindi che quella zucca pelata di Billy Corgan e i suoi amabili soci hanno dato vita e inscenato due capolavori e mezzo dell’alternative rock (se proprio dobbiamo dargli una definizione, ma basta non chiamarlo grunge alla fine).
Siamese Dream nel 1993 rivelò al mondo che la voce sgraziata, da bambino incazzato di Corgan riusciva ad esprimere con cruda efficacia tutta la rabbia viscerale e onesta con sé stessa di, beh, un bambino incazzato, che ti spara nel cuore roba come “disarm you with a smile, and leave you like they left me here, forever in denial”. Mi trattengo dallo sviscerarvi quanto siano fighi testi e musica di questo disco, ma se mi concedete di fare un minimo il figo, vi svelo che il senso di Siamese sta tra “Jesus, are you listening, up there, to anyone at all?” di Quiet e il “Can anybody hear me? I just want to be me” dell’agrodolce e sublime Mayonaise. La voce di Billy è quella del bambino/adolescente dei ’90, mai così benestante ma mai così crudelmente solo con sé stesso e i suoi scazzi, desideroso di essere accettato per quello che è, alla fine: una creatura che dovrebbe essere la più felice del mondo, ma invece si sente tormentata, confusa e triste.
Due anni dopo, uscì quello che Rolling Stone (la rivista patinata) non metterà mai al posto del Radiohead o neanche, temo, degli Oasis in una top 10 dei dischi più influenti dei ’90, ma che non smetterà neanche per un momento di essere colonna sonora costante della mia vita (agh, l’ho scritto davvero?). A maggior ragione in questo caso sono costretto a trattenere la logorrea, ma di sicuro Mellon Collie and the Infinite Sadness non nasconde già dal titolo che cacchio vogliono stare a significare queste 28 tracce in due cd: un’esplorazione dei meandri della melancolia (che non è proprio malinconia) umana. E, neanche a dirlo, i ’90 sono IL decennio della melancolia, della nostalgia verso un passato puro e mitico, anni di cinismo dovuto alla consapevolezza che il vuoto che sentiamo “forse non si riempie mai, perché in fondo è proprio parte di noi” (come raccontò un gruppo improbabile, e come ho scritto nell’ultimo articolo qua). Mellon Collie offre quanto di più evocativo possano proporre due ore di musica a livello di atmosfere, ma non si esce mai da uno sguardo quasi sempre rivolto all’indietro. La speranza di trovare un senso nella vita lasciato trasparire dal “it’s what you take that makes it right” di Porcelina of the vast oceans si spegne nella solo apparente spensieratezza del “and we don’t know just where our bones will rest, to dust, I guess” della nostalgica 1979 che rimanda al “well I tried to ease the pain, but somehow it just feels the same” di Mayonaise. Che ricorda, se me lo concedete, il pessimismo cosmico che ci aveva descritto il buon Giacomino Leopardi quasi due secoli prima dei ’90. Ma stavolta senza deformità fisiche, pelata a parte, e solo ed esclusivamente le tare mentali che ci uniscono.
Adore (1995) è sulla carta la deriva pop e commerciale degli Smashing Pumpkins, evidententemente in piena parabola discendente dopo il picco di Mellon Collie, e così fu bollato da molti. In realtà, Adore è forse il disco in cui più di tutti Billy Corgan si lascia andare con la sua poetica nichilistica e che nasconde momenti da pura pelle d’oca. Dietro una patina di atmosfere suadenti e goticheggianti, da To Sheila a Behold, si annidano momenti di sublime oscurità. Come For Martha, la canzone deprimente per eccellenza di un gruppo famoso per le canzoni tristi, il cui struggente finale rivela l’assoluta impotenza dell’uomo di fronte al lutto (“long horses we are born, creature more than torn, mourning our way home”). E come Crestfallen, che prova con poche strofe a restituire lo struggimento e l’egoismo dell’amore a senso unico “and you may go, but I know you won’t leave, too many years built into memories, your life is not your own”
E quindi, in conclusione? Beh, non sono riuscito ad evitare le glorificazioni da fanboy, ma sapevo di non poterlo fare, l’intro era una palese paraculata, spero comunque di aver colto l’essenza di un gruppo che ha segnato un decennio raccontandoci l’inquietudine e lo smarrimento del ragazzo tipo di quegli anni, che dopo tutte le speranze dei ’60, le utopie dei ’70 e le chimere degli ’80 si trova disorientato tra un passato mitizzato e un futuro indefinito e minaccioso, e vive così il presente nell’edonismo, ma anche nell’introspezione.
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