Il libraio indipendente con i suoi scaffali polverosi che consigliava i migliori titoli a tuo padre è stato schiacciato da Amazon. La signora a cui mancava poco per la pensione ha chiuso la cassa della sua boutique di scarpe senza emettere uno scontrino, sconfitta da Zalando. Il negozio di dischi ha la saracinesca abbassatada tre anni: i profitti li hanno portati via iTunes e Spotify (se non Torrent), e pure i biglietti dei concerti ora vengono gestiti online. Qualche chilobyte di codice identifica il prodotto del potenziale cliente tra le migliaia di negozi nel mondo e algoritmi sempre più complessi evidenziano le offerte migliori. “Prezzo più basso! Spedizione gratuita! Puoi restituirlo in 100 giorni!”. Con poche righe digitate su un computer qualche fenomeno dell’IT laggiù in america è riuscito a far cessare l’attività di centinaia o migliaia di negozi.
E giù tutti a piangere. Qualcuno posta su Facebook la galleria fotografica di Corriere.it sulle più belle librerie del mondo. Qualcuno su Corriere.it scrive un articolo a difesa delle piccole boutique. Qualcuno al Corriere.it propone la rubrica settimanale “Noi che compravamo i dischi”. E tutti identificano il colpevole del crimine: il capitalismo sfrenato, le grandi multinazionali… la finanza!
Ma cosa accade quando la finanza si ciba dei suoi stessi lavoratori? Perché nessuno commenta in favore dei poveri consulenti, revisori e dipendenti delle banche che nel 2008 invasero le strade con i loro scatoloni, le cravatte slacciate e lo sguardo inebetito? Anche loro meritano un appello, e questo è l’appello per una figura che ha accompagnato i mercati finanziari (anzi, i mercati punto) fin dalla loro nascita: il floor trader.
Ding ding ding! Suona la campanella e i grembiulini sono tutti pronti, inizia la giornata: in meno di un secondo il volume delle urla raggiunge volumi insopportabili e nessuno può più fermarli. No, non ci troviamo in un asilo di provincia ma al Chicago Mercantile Exchange, primo centro di negoziazione nel mondo per i derivati sulle commodities. Accalcati uno contro l’altro, decine di persone formano giganteschi capannelli per decidere quando, quanto e a quanto raw material scambiarsi. In effetti la caciara che si scatena è come quando ci si scambiava le figurine o le carte di Magic all’intervallo, solo che in questo caso il valore complessivo scambiato in un giorno è di alcune centinaia di miliardi di dollari. Benvenuti nel favoloso mondo della negoziazione open outcry.
In qualsiasi epoca i mercati sono stati luogo per gente con le tonsille d’acciaio: dal mercato del pesce di Sant’Agata a quello di tessuti di Jaipur passando per i banconi ribaltati al tempio di Gerusalemme. Tutt’oggi alcuni capannoni sulle coste del Mediterraneo accolgono quotidianamente pescatori e mercanti per dare vita alle aste che definiranno i prezzi di giornata. Nessuno di questi mercati però ha mai avuto un impatto tanto forte sul resto del mondo quanto quello del CME (nato come Chicago Butter and Egg Board), del London Metal Exchange o del New York Mercantile Exchange.
Le cose funzionano tendenzialmente così. Seduto in qualche ufficio di New York, Londra, Milano o Tokyo un vero duro della finanza tiene il sigaro con la mano destra e solleva la cornetta con la sinistra (si, sembra anacronistico usare il telefono nel 2014 e infatti quasi nessuno lo usa più, ma ci arriviamo dopo). Dall’altra parte del telefono c’è un broker del CME che riceve l’ordine (supponiamo l’acquisto di olio di soia per 10 milioni di dollari, ad un certo prezzo unitario, per la fine di maggio 2015). Il broker consegna il messaggio ad un runner il quale a sua volta lo deposita nelle mani di un floor trader, in giacca blu, gialla o verde a seconda del ruolo coperto. Con le tre coordinate magiche (quando, quanto e a quanto) il negoziatore comincia a urlare alla ricerca di una controparte. Una volta trovata e preso l’accordo, segna gli importi effettivi della transazione: il messaggio risale dal runner al broker e dal broker al duro della finanza, che spegne il sigaro ed apre il catalogo degli yacht.
Questo quando non è lo stesso floor trader a mettere in gioco i suoi risparmi. Tutti avete presente la scena conclusiva di Una poltrona per due, quando Eddie Murphy e Dan Aykroyd fanno saltare il banco con una mossa (un uno-due degno di Tyson) sui futures del succo d’arancia congelato. Ecco, c’è gente che lo fa per davvero. Certo, è improbabile che basti un solo colpo per garantire la bella vita ad un trader; anzi, è forse più facile che basti un solo colpo per mandarlo in rovina. Queste persone sono forse tra le pochissime a poter scrivere sul loro profilo di Facebook: “Imprenditore di me stesso”. Mettono in gioco molto o quasi tutto. Il rischio è enorme, e non sono per nulla interessati al sottostante (petrolio, mais, lana grezza o pancetta). Sono, di fatto, l’esempio più puro dello speculatore.
Cosa rende i floor trader differenti al centinaio di migliaia di negoziatori che operano in ufficio dietro tre-quattro schermi di Bloomberg? Potremmo azzardare una risposta: il cuore. Alla fine dei conti, la differenza tra i due è la stessa che passa tra il campione di Dota seduto in poltrona e uno sporco, insanguinato gladiatore del Colosseo (la figura non è del tutto casuale: è capitato che alcuni traders si dessero appuntamento fuori dal CME per regolare a mano nuda un deal andato in fumo). Eppure entrambi giocano per importi pesantissimi. Entrambi hanno elaborato un linguaggio immediato, diretto, privo di fronzoli inutili. Il trader online utilizza poche lettere per definire il cosa, il quando, il quanto. Il floor trader usa il linguaggio dei segni.
Si ritorna alla metafora delle scuole elementari: tutti abbiamo imparato il linguaggio dei segni, e abbiamo comunicato da un banco all’altro scandendo le lettere con le mani. Anche a Chicago usano le mani, ma con un solo gesto si indica un intera caratteristica.
Mani aperte: Vendo
Indice alzato: Al prezzo di uno
Pugno chiuso in fronte: Cento quantità
Mano che tira il bavero della giacca: Scadenza a Maggio
Qui sotto il linguaggio messo in pratica (e qui invece la legenda definitiva)
Questa settimana il WSJ ha pubblicato un articolo sui pericoli derivanti dalla scomparsa dei floor traders a causa dell’introduzione di sistemi informatici avanzati. Il numero di agenti che si scannano in mezzo al pit (così si chiama l’arena) è, a seconda dei mercati, dalle cinque alle dieci volte minore rispetto ai primi anni del 2000, quando vennero introdotti i primi strumenti online effettivamente competitivi. Tuttavia Daniel Beunza, docente del LSE che ha studiato per 13 anni il linguaggio dei floor traders, ritiene che nessun sistema informatico possa completamente sostituire gli esseri umani: come in ogni campo, esistono qualità che non possono essere replicate del tutto da un computer. L’esperienza, l’istinto, il “difetto di razionalità” soprattutto: quando nel 2010 i sistemi IT del Dow Jones impazzirono quotando alcune blue chips a un penny, ed altre a 99,999 dollari, tutto il sistema informatico andò in crash (fu ribattezzato “Flash Crash”), e gli unici a poter operare secondo prezzi razionali furono gli urlatori di Wall Street. Il cuore del mercato, per quanto debolmente, continuò a battere.
Conoscenza, improvvisazione, istinto, esperienza. Guarda un po’, tutte quelle qualità che Amazon non ha, ma il vecchio libraio si.
Per quelli che la partita doppia è andare allo stadio ubriachi. Prendo un libro o un giornale di economia, lo apro a caso, leggo e – qualche volta – capisco l'argomento, infine lo derido. Prima era il mio metodo di studio, adesso ci scrivo articoli. Sono Dan Marinos, e per paura che mi ritirino la laurea mantengo l’anonimato.
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