La prostituzione è sempre un tema caldo fra i parlamentari, tanto che solo in questa legislatura sono state presentate in materia ventidue Proposte di Legge. L’ultima risale allo scorso 9 Giugno, a firma della deputata del PD Caterina Bini.
Con l’intitolazione di “Modifica all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, concernente l’introduzione di sanzioni per chi si avvale delle prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione”, la proposta mira a modificare l’attuale Legge Merlin introducendo una multa da euro 2.500 a euro 10.000 a carico di chiunque “si avvalga delle prestazioni sessuali offerte da soggetti che esercitano la prostituzione”, arrivando a prevedere fino a un anno di carcere in caso di reiterazione. L’obbiettivo è “eliminare la prostituzione in quanto incentiva la tratta di esseri umani e viola la dignità delle donne“, intervenendo non su prostitute o protettori ma direttamente sui clienti.
L’approvazione della proposta significherebbe per l’Italia un passaggio dal modello abolizionista, che andava di moda negli anni ’50 e ’60, al così detto modello neo-proibizionista svedese. Adottato nel paese scandinavo nel 1999, si incentra sulla depenalizzazione della vendita di prestazioni sessuali accompagnata di converso dall’introduzione del reato di loro acquisto. Il modello svedese ha avuto poi successo, venendo accolto in Norvegia nel 2008, in Islanda nel 2009 e soprattutto in Francia il 6 Aprile scorso, accompagnato da numerosissime proteste delle dirette interessate.
La riflessione da cui è maturato il modello svedese nacque all’interno dei circoli femministi del paese scandinavo: la prostituta è considerata automaticamente una vittima passiva dello sfruttamento sessuale. In particolare si vede nella prostituzione sempre una violenza dell’uomo e del patriarcato contro le donne.
Il Ministro svedese per la Parità dei Sessi così commentò la legge, intervenendo ad una conferenza a Stoccolma su “Donne, Lavoro e Salute” nel giugno 2002: “La prostituzione non è mai un lavoro o il risultato di una libera scelta delle donne. E tutto il mercato delle prostitute straniere è schiavizzato. Le cause sono la società patriarcale, la povertà che deriva dall’ineguale distribuzione delle risorse tra donne e uomini, lo stupro, l’incesto e altre forme di violenza maschile contro le donne e, infine, la “femminizzazione” della povertà. Come ogni altro mercato, quello del sesso dipende dai compratori. Senza uomini che credono di potersi prendere il diritto di comprare il corpo di altre persone e di usarlo per il proprio piacere non ci sarebbe prostituzione. Lo sfruttamento sessuale delle donne finirebbe”. Altre aree del pensiero femminista hanno criticato le basi di principio di questo intendimento, ma per quanto ora ci riguarda sono discussioni teoretiche che lasciano il tempo che trovano. È sicuramente più rilevante esaminare quali siano i risultati dell’applicazione di questo modello dopo oltre dieci anni.
Il tema è stato oggetto di uno studio di Jay Levy e Pye Jakobsson per la British Society of Criminology. L’analisi dei ricercatori è giunta alla conclusione che criminalizzare i clienti non è servito a migliorare la condizione delle prostitute e nemmeno a ridurne il numero. Sono sì diminuite le prostitute di strada, ma solo perché la loro attività si è spostata in luoghi chiusi e clandestini ancor più difficili da controllare da parte delle autorità, tanto di polizia che sanitarie. I problemi con le forze dell’ordine poi sono proseguiti, con ripercussioni legali e interferenze autoritarie, accompagnate da difficoltà con i servizi sociali e uno stigma sociale ancor più accresciuto.
Di fronte a questi risultati non sorprende che numerosi commentatori internazionali e pure Amnesty International abbiano dichiarato il proprio sostegno al modello tedesco, di natura regolamentarista.
Infatti in Germania nel 2001 la coalizione di governo fra SPD e Verdi approvò una riforma che ha trasformato lo scambio di prestazioni sessuali in una professione come qualsiasi altra. Le modifiche alla legislazione precedente furono diverse: non riconoscendo più legalmente la prostituzione come attività “immorale”, alle prostitute venne dato accesso all’assicurazione sanitaria, al sussidio di disoccupazione, alla pensione; i bordelli dovettero registrarsi come attività commerciali; la figura del protettore fu legalizzata e fu obbligata a stipulare regolari contratti di lavoro con le prostitute.
Il modello tedesco ha riscosso ampio apprezzamento tanto all’estero che in Italia, con decine di progetti di legge ad esso ispirati accumulati fra Camera e Senato: addirittura uno datato 7 Marzo 2014 a firma Antonio Razzi.
Purtroppo recenti inchieste hanno mostrato come il modello tedesco scricchioli tanto quanto quello svedese. Un primo dato è indicativo: sebbene i sindacati abbiano predisposto dei contratti modello per facilitare la regolarizzazione delle prostitute, si stima che solo l’1% di esse lavori sotto contratto.
La ragione è semplice e sta tutta nei rapporti di forza economici. Una percentuale compresa fra il 65% e l’80% delle 200mila prostitute che operano in Germania proviene dall’Est Europa, non sa il tedesco ed è spesso vittima di una tratta umana. Sono persone che si trovano in una posizione di tale dipendenza economica da non essere in grado di abbandonare o denunciare il proprio protettore per qualsivoglia inadempienza contrattuale, sopruso o addirittura violenza questo compia.
Pure le autorità giudiziarie si sono scoperte impotenti nell’offrire tutele, proprio a causa della legalizzazione della figura del protettore: ad esempio, ora per aversi “sfruttamento della prostituzione” è necessario che il protettore incassi oltre la metà del ricavo della prostituta, ma è estremamente difficile da dimostrare nell’aula di un tribunale.
La riforma del 2001 non è nemmeno servita a tenere le mani della criminalità organizzata lontane dal giro della prostituzione: si stima che la maggioranza dei bordelli tedeschi siano gestiti proprio dalle varie mafie internazionali, essendo un ottimo strumento legale per riciclare denaro sporco. Al contempo, essendo organizzazioni già coinvolte nella tratta umana, per esse è più facile indirizzarla verso un paese che adotta il modello regolamentarista. Infatti nel 2006 il Ministro della Famiglia tedesco dichiarò che non c’era “alcuna prova solida che dimostrasse che la legge avesse ridotto la criminalità”.
La situazione italiana dunque rimane ancora basata sul modello abolizionista, introdotto con la Legge Merlin del 1958. Sull’onda dell’abolizione francese delle case chiuse del 1946 e della Convenzione ONU per la repressione della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione del 1949, contro il parere di liberali, radicali, socialdemocratici, missini e monarchici, tutti gli altri partiti approvarono in parlamento la proposta di legge della senatrice socialista Lina Merlin.
La legge proibisce l’esercizio della prostituzione in alberghi, case mobiliate, pensioni, spaccio di bevande, circoli, locali da ballo o luoghi di spettacoli, o loro annessi e dipendenze, o qualunque locale aperto al pubblico o utilizzato dal pubblico. Proibisce pure l’apertura di “case di prostituzione”, fattispecie che per la giurisprudenza (Cassazione, sentenze n. 7076/2012 e 33160/2013) si verifica ogni qual volta si abbia un minimo di organizzazione dell’attività prostitutiva, cosa che implica l’esercizio contestuale dell’attività da parte di più persone negli stessi locali. Illegali sono anche il reclutamento, il favoreggiamento, l’induzione e lo sfruttamento della prostituzione, la tratta di persone e la prostituzione minorile.
In sintesi, in Italia è reato aprire bordelli e fare il protettore. È legale offrire prestazioni sessuali come anche acquistarle. Rimane un po’ di confusione interpretativa circa cosa integri invece il favoreggiamento: questo sarebbe “ogni forma di interposizione agevolativa e con qualunque attività che sia idonea a procurare più facili condizioni per l’esercizio del meretricio” (Cass., sent., n. 47226/2005). Una definizione molto vaga, troppo vaga, e infatti gestire un sito online che ospita annunci di prostitute è stato ritenuto a volte un reato e altre no, oppure anche affittare un appartamento come residenza ad una donna che svolge l’attività di prostituta per alcuni giudici non è reato mentre per altri sì. E potremmo continuare a lungo.
Rimane apparentemente aperta la questione sul pagamento delle imposte da parte delle prostitute. In realtà è appunto solo “apparentemente” aperta, dato che l’Agenzia delle Entrate ha già da qualche anno iniziato ad inviare cartelle esattoriali a prostitute a seguito di accertamenti fiscali sul loro reddito. Contestualmente le ha pure obbligate ad aprire una Partita Iva nella categoria “Altri servizi alla persona”, la stessa di astrologi e spiritisti, lustrascarpe, bagnini e tatuatori. Ciò che non poté il Parlamento, poté il Fisco.
Queste azioni non sono estemporanee, ma si calano all’interno della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione. Questa già nel 2010 aveva stabilito in una sentenza riguardo ad una “ ballerina” che per “quanto poi al suo esercizio dell’attività di prostituta, tale dovendosi qualificare in concreto l’attività […], che ha coltivato nel tempo numerose relazioni tutte lautamente pagate, non vi è dubbio alcuno che anche tali proventi debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita”.
In una sentenza dell’anno seguente, la n. 10578/2011, la Corte ha ribadito questa interpretazione aggiungendo che i redditi da prostituzione sono assoggettabili, oltre che a IRPEF, anche a IVA e IRAP “quando sia autonomamente svolta dal prestatore, con carattere di abitualità: seppur contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per danaro del proprio corpo, l’attività predetta non costituisce reato, e consiste, appunto, in una prestazione di servizio verso corrispettivo, inquadrabile nell’ampia previsione contenuta nel secondo periodo del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 1“.
Bisogna anche considerare che per l’ordinamento italiano sono assoggettati a tassazione anche “i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale“, quindi in realtà per quanto riguarda il pagamento delle imposte non rileva se l’attività di prostituzione sia lecita o meno. Tanto che nell’ordinanza n. 18030/2013 la Cassazione ha ricordato come “i comuni principi in tema di accertamento dei redditi attraverso i dati bancari si applicano anche quando il reddito da assoggettare a tassazione costituisca provento di fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo e che, in coerenza, il reddito derivante dall’esercizio della prostituzione, in base al generale principio della tassabilità dei redditi per il fatto stesso della loro sussistenza, introdotto dall’art. 36 comma 34-bis del DL n. 223/2006, è sussumibile sotto l’art. 6 lett. f) del Tuir e soggetto ad imposizione diretta“. Cioè i redditi derivanti dall’attività di prostituzione si catalogano o come redditi da lavoro autonomo o come redditi diversi e come tali ci si deve pagare le tasse.
I nostri parlamentari dunque, piuttosto che tentare di importare vecchi modelli stranieri già falliti, farebbero meglio a volgere lo sguardo verso le corti dei nostri tribunali, consolidando e riordinando in legge quella che è la razionale giurisprudenza emersa negli ultimi anni. Non bisogna dare man forte ai papponi ma riconoscere le prostitute come libere professioniste, imprenditrici di sé stesse.
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