L’attuale critica mossa contro l’olio di palma e la sua presunta insostenibilità ambientale da parte di alcuni gruppi ambientalisti, primo tra tutti Greenpeace, parte dell’opinione pubblica e anche del premio oscar Leonardo di Caprio, trascende la cognizione di causa (concetto oramai intangibile per chi parla professando ideologie; qui un approfondimento al riguardo) e ha spinto grosse aziende del settore alimentare come Ferrero a non cedere alle pressioni della caccia alle streghe 2.0, oltre ad aver avuto l’effetto di stimolare la presa di coscienza del ruolo dell’umanità sulla terra.
L’olio estratto dalla polpa della palma tropicale Elaeis guineensis e dai semi della stessa (olio di palmisto) è una componente essenziale per numerosi prodotti dolciari e non solo (cosmetici, detergenti, zootecnici): l’elevata percentuale di acidi grassi saturi presenti nell’olio consente di ottenere un prodotto dalla consistenza semi solida a temperatura ambiente, con una migliore capacità di conservazione rispetto ad altri oli vegetali che permette di ridurre il food waste che tanto si cerca di limitare oggigiorno.
Conservare al meglio un prodotto non significa soltanto ridurre quantitativamente lo spreco alimentare ma anche sfruttare al meglio lo spazio dedicato alla coltura, massimizzarne l’efficienza delle pratiche e l’utilizzo degli input ivi impiegati (concimi, pesticidi) i quali, rispetto ad altre colture oleaginose, risultano di molto inferiori. Per non parlare della resa media per ettaro di olio e della longevità della coltura (25 anni).
Al 2012 la produzione mondiale di olio di palma è arrivata a toccare le 53,6 milioni T (su 161 milioni T di oli vegetali), contribuendo al soddisfacimento di un mercato mondiale dagli alti consumi, concentrati come gli scambi commerciali tra Cina, India, Malesia, Indonesia, UE, USA.
Con la domanda che aumenta proporzionalmente alla crescita demografica, la coltura di palma da olio offre una grossa opportunità di mercato a molti paesi dell’Africa occidentale e del sud America già inseriti nel settore ma con produzioni non ancora ben sufficienti da potersi rendere competitivi.
Il sud est asiatico non è proprio la culla originaria della palma da olio ma rimane comunque il maggior produttore mondiale: l’86% di essa viene fornita dall’Indonesia (53%) e dalla Malesia (33%) che insieme costituiscono inoltre il 21% del consumo mondiale (così come in Brasile ed in Africa occidentale, nel sud est asiatico l’olio di palma viene spesso utilizzato allo stato grezzo, ricco di carotenoidi prima della raffinazione, per uso domestico). Nel primo, si stima che la coltura della palma da olio occupi 3,7 milioni di lavoratori (su 120 milioni totali, il 39% impiegato in agricoltura), con quasi metà della produzione interna in mano a piccoli produttori. Inoltre, in Indonesia l’olio di palma è il terzo bene come materia prima per esportazione, che ha portato ad un guadagno di 17,6 miliardi di dollari nel 2012 (carbone e gas petrolio ai primi due posti) e ad un aumento della middle-class indonesiana a scapito della fascia in povertà. In Malesia i numeri si riducono pur rimanendo incisivi: 590.000 lavoratori trovano posto nelle colture dell’oro verde (su 1.380.000 lavoratori occupati nel 2009), producendo 17 milioni T nel 2015-16 contro le 32 milioni T indonesiane.
Gli orizzonti e le prospettive di questo settore lasciano presagire un che di positivo: nell’ultimo anno il prezzo dell’olio è passato dai 583 USD/T di ottobre 2015 ai 712 USD/T del mese scorso, rialzo che rende euforici sia grandi che piccoli produttori, memori del picco registrato ad aprile 2012 di 1.181 USD/T. Al di là del prezzo, l’aumento di olio di palma dedicato alla produzione di biodiesel inciderà sì sulla riduzione delle esportazioni dei paesi produttori ma in virtù di un reimpiego aziendale capace di far risparmiare agli stessi sugli input energetici.
“While oil palm expansion has undoubtedly been damaging to biodiversity in the past, it is clear that considerable further expansion would be possible, without further environmental damage, provided that the expansion in properely managed […] and there is sufficient land available for the necessary expansion to occur without further deforestation. Consumer demand for sustainable palm oil has led to the formation of RSPO (Roundtable of Sustainable Palm Oil, n.d.a), but to ensure that future developement is directed away from forest land, governments, the palm oil industry and the NGOs (organizzazioni non governative, n.d.a) must all contribute.”
“R.H.V Corley”*: How much palm oil do we need?
Dati alla mano, sembrerebbe impossibile che un’eventuale sostituzione della coltura di palma da olio con altre erbacee oleifere possa portare ad esiti positivi. Sostituire l’olio di palma significherebbe dover ridistribuire la produzione di decine di milioni di tonnellate di olio su altre colture, per il semplice motivo che non si può pensare di abbandonare 1/3 del mercato mondiale degli oli vegetali da un giorno all’altro, e ciò porterebbe di fatto all’effetto contrario da quello desiderato dai salvatori del pianeta: aumento della deforestazione per incrementare le superfici coltivabili (e delle emissioni di co2), aumento del consumo d’acqua, dell’uso di pesticidi e concimi (con relativo aumento dei costi per i produttori), maggior uso di OGM (esistono varie cultivar geneticamente modificate di soia e colza; non che sia sbagliato o che facciano male a chicchessia, ma a Greenpeace sembra non piacciano molto). Con ciò, sarebbe opportuno lasciare le conseguenze di eventuale abbandono della coltura della palma da olio nel buio angolo delle ipotesi, invece che sperimentarle direttamente.
Nonostante l’opera di convincimento del divo di Hollywood neo premio oscar, così tanto impegnato a far conoscere ai suoi fans la grande minaccia dell’olio di palma che incombe sulla biodiversità e sul pianeta, l’unica persona in grado di spiegare questa situazione complessa in modo semplice ed esaustivo è George Carlin:
*NDR: R.H.V Corley è un consulente indipendente, ha lavorato 40 anni nel settore della ricerca sulle colture tropicali (di cui 16 in Malesia), è stato capo di ricerca presso la Unilever ed è stato coinvolto nella la valutazione dei criteri di sostenibilità per la RSPO
Presunto studente di Agraria all'Università di Bologna, esperto perditempo, mi diverto a viaggiare sul filo della pagaia.
11 Ottobre 2016
19 Gennaio 2013
Presunto studente di Agraria all'Università di Bologna, esperto perditempo, mi diverto a viaggiare sul filo della pagaia.
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