Il nome della testata online da poco inaugurata da Matteo Salvini, il quale ne è pure co-direttore, prende il nome de “Il Populista”. Aprendone la pagina principale possiamo leggere, in alto a destra, “Libera la bestia che c’è in te, scrivi anche tu per Il Populista”. Un invito comprensibile vista la probabile penuria di alfabeti disposti a farlo, ma che dà un’indicazione precisa di cosa ricerchi la testata: parlare alla pancia del cittadino, liberare i suoi istinti più reconditi ed animali, cercare soluzioni sbrigative a problemi complessi e, in definitiva, dare un riferimento web al populismo italiano.
La parola “populismo” appare per la prima volta nel 1882 sul New York Times, ma non ha sempre avuto l’accezione negativa che ha oggigiorno. In questo senso, un’analisi dettagliata dell’evoluzione della parola è stata portata avanti dal politologo olandese Tim Houwen, che evidenzia come sia dagli anni ’50 – ’60 che gli accademici hanno iniziato ad utilizzare la parola “populismo” con una connotazione negativa, ovvero da quando si è iniziato ad utilizzarla per riferirsi a correnti politiche estremiste. Il sociologo Edward Shils ad esempio, definì “populisti” i movimenti estremisti dei decenni precedenti, quali il comunismo, il fascismo, il nazismo, ma anche altri più recenti per l’epoca, quali il Maccartismo. In generale, Houwen riassume il concetto espresso dalla parola “populista” come una logica che vorrebbe dividere “il popolo” dalle “elite”, con il popolo considerato come il bene, mentre le elite considerate come il male. Al contrario, per chi usa la parola con accezione negativa, e ritiene il populismo un male da estirpare, le parti sono invertite, e si tende a considerare i populisti come “falsi democratici”.
Per quanto dunque molti siano portati a credere, visti i recenti sviluppi, che il populismo sia un frutto marcio della crisi economica, esso è facilmente rintracciabile pure nel passato, basti pensare al Fronte dell’Uomo Qualunque, che nell’Italia post seconda guerra mondiale godette anche di un discreto successo, o ancora alla citazione di Ionescue e Gellner, datata 1969, in una conferenza internazionale a Londra, in cui, parafrasando Engel e Marx, i due accademici cominciarono così il loro discorso: “A spectre is haunting the world – populism”.
Eppure è inevitabile riflettere su come, in democrazie avanzate come quelle occidentali del XXI secolo, ci sia ancora spazio per movimenti e partiti politici che riempiono le piazze lanciando slogan e non soluzioni, e anzi, come questo trend sia cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, piuttosto che ridursi. La lista di importanti partiti populisti in Europa è lunga, e non esenta quasi nessuno stato. Probabilmente l’ultima nazione ad esserne stata contagiata, in ordine di tempo, è stata la Germania, con l’ascesa dell’AFD, ma altre nazioni, quali la Francia (Front National), l’Italia (Lega Nord e in larga parte anche Movimento 5 Stelle), l’Ungheria (Jobbik ma anche Fidesz, che sommati hanno guadagnato alle elezioni del 2010 quasi il 70% dei consensi del popolo magiaro), il Regno Unito (UKIP), la Grecia (Alba Dorata), l’Olanda (Partito per la Libertà), la Polonia (Diritto e Giustizia), l’Austria (Partito della Libertà Austriaco, di cui Jorg Heider fú leader), ne sono afflitte già da tempo.
Nascondersi tuttavia dietro l’ombra della crisi economica per giustificare la nascita e la prosperità di tutti questi partiti politici è fuorviante, e certamente non aiuta nella soluzione del problema, dato che non si farebbe altro che spostarlo da politico ad economico.
Il punto di partenza per un’analisi di questo tipo dovrebbe essere invece la banalizzazione della cultura come sostrato preparatorio di questa ondata di populismo“lo scadimento di gran parte della letteratura a puro intrattenimento, il decadere del giornalismo sempre più di sensazione e di colore e sempre meno di inchiesta, la riduzione della sociologia a formato da salotto televisivo, fatta di sgargianti metafore, ma priva di contenuti reali” hanno inevitabilmente creato un terreno fertile per lo sviluppo dei populismi e ne sono stata sia origine che conseguenza.
Un secondo spunto di analisi è dato dall’analisi dei differenti tipi di populismo: uno di destra, sostanzialmente più diffuso, a ben vedere dai partiti elencati sopra, che esalta la difesa del vecchio Stato nazionale ancorandola al principio dell’identità etnica, ed uno di sinistra, dove avanza la spinta protezionistica contro gli effetti di una globalizzazione che sta eliminando le barriere nella circolazione di capitali, lavoratori e merci; due correnti che sempre più spesso si mescolano e prendono in prestito elementi ideologici l’una dall’altra, creando un brodo confuso dove dare etichette e nomi è sempre più difficile.
In Europa, infatti, entrambe queste correnti manifestano un pensiero comune: l’euroscetticismo e l’odio verso moneta comune e quelle entità che gestiscono inevitabilmente la moneta stessa. Nel Parlamento europeo, il peso dei partiti nettamente euro-critici o euro-scettici è quasi raddoppiato fra il 2009 e il 2014, passando dal 16,1% al 28,1%. Allo stesso tempo, il peso dei partiti storicamente “classici” (destra, sinistra, centro) si è per la prima volta ridotto a meno del 70%.
A questo punto dell’analisi, entra in gioco la Comunità Europea, e le accuse ad essa rivolte: la sua incapacità di governare la crisi economica e la sua incapacità di fronteggiare l’ondata migratoria. La prima le è di solito rivolta dai partiti di sinistra, che vedono nell’austerità il peggiore dei mali moderni, mentre la seconda è utilizzata dai partiti di destra e di estrema destra, che sono arrivati, in Italia, perfino a suggerire di lasciare annegare gli immigrati al largo delle nostre coste, e che ovunque nel mondo stanno facendo erigere muri [1] [2] [3], come se l’insegnamento del Muro di Berlino, che divise l’Europa per decenni, fosse irrimediabilmente caduto nel dimenticatoio.
E se decidessimo di utilizzare l’aumento del consenso ai partiti euroscettici come indicatore di forza dei movimenti populisti, effettivamente troveremmo che le due accuse di cui sopra sono una determinante fondamentale dell’avanzata dei movimenti populisti. Tuttavia a questa analisi si potrebbe controbattere sia che i movimenti populisti hanno iniziato a prendere piede in Europa ben prima della crisi, ovvero dagli anni ’80 – ’90 (si pensi a Jean Marie Le Pen o a Umberto Bossi), sia che i movimenti populisti, sia prima sia durante la crisi, hanno riportato grandi successi in due paesi, la Svizzera e la Norvegia (rispettivamente UDC e Partito del Progresso), che sono sempre rimasti al di fuori dell’Unione Europea.
Eppure, la dimostrazione più forte dell’inadeguatezza delle due accuse rivolte alla Comunità Europea per spiegare la diffusione del populismo è incarnata da quell’imprenditore, personaggio televisivo e arrangiato politico che ha conquistato nell’ultimo anno il partito repubblicano, che prende il nome di Donald Trump.
A questo punto, la spiegazione della diffusione dei populismi potrebbe ridursi ad una mera analisi sociologica: la disillusione seguita alla grande crisi del 2007-2008 e la ricerca di spiegazioni semplici e di metodi veloci per tornare alle certezze che si avevano prima. Fino a dieci anni fa, nonostante solo l’1% degli straricchi americani fosse riuscito ad arricchirsi ancora di più, e la crescita del reddito pro-capite della famiglia media si fosse ormai arrestata, alla stagnazione del potere di acquisto si accompagnava una spettacolare corsa del valore degli immobili, che rendeva credibili speranze e illusioni della “società di proprietari”.
Per approfondire la diffusione del populismo oltreoceano tuttavia, non ci possiamo fermare qui. E se vogliamo comprendere il populismo dalla nostra parte dell’oceano, è necessario aver ben chiaro cosa sia successo anche in USA. E l’ingrediente che manca nell’analisi fin qui portata avanti, è il capitolo sul “politically correct”, che non può non farci tornare alla mente la parola nostrana “buonista”, coniata solo recentemente per descrivere appunto chi, secondo alcuni, eccederebbe proprio nel “politicamente corretto”.
Specie oltremanica, il politically correct si è spinto troppo in là, talora superando persino il limite del ridicolo. Ed è inevitabile che a chi fatica ad arrivare a fine mese, a chi si ritrova una concorrenza maggiore nel mercato del lavoro (bassa manovalanza, che qualsiasi immigrato è in grado di eseguire), e a chi vive nei sobborghi e crede di toccare con mano le conseguenze dell’aumento della criminalità, tutti questi discorsi rechino un fastidio tale da giustificare, per loro, conseguenze estreme come quelle sbandierate dai partiti populisti. E, a maggior ragione, questo accade se a farsi latori di certe istanze sono quelle classi, inevitabilmente più agiate, che dalla globalizzazione hanno avuto benefici.
Per cui, da una parte ci troviamo ad avere delle persone ben istruite, con un reddito alto o medio alto, che si preoccupano dei diritti civili, di garantire l’integrazione e l’accoglienza degli immigrati, e tutto ciò che ne segue. Dall’altra, un agglomerato di persone che si sono bruscamente rese conto di quanto il loro futuro sia incerto, e per le quali il divario tra i problemi fittizi delle “élite” e i loro è diventato ampio, troppo ampio. Così ampio da sembrare ridicolo. Così ridicolo da non far più apparire i vari Trump, Salvini, Le Pen, Orban, Farage, […] come arrivisti, ma come ancore di salvezza.
In un panorama come quello delineato, è difficile, se non impossibile, dare delle colpe a qualcuno nello specifico. Certamente parte della responsabilità cade necessariamente su quella stampa che ricerca il clickbaiting e su quella televisione che punta tutto sullo share e niente sui contenuti. Ma queste potrebbero essere anche delle conseguenze, e non solo delle cause. Allo stesso modo, appare evidente che gran parte delle colpe debbano ricadere su quelle persone che, per disinformazione o mancanze culturali, non sono capaci di comprendere a fondo la mancanza di lungimiranza delle proposte di molti di quei politici che fanno ricorso al metodo Blumenthal; tuttavia, appare quantomeno poco astuto limitarsi a giudicare queste persone e ritenerle le uniche davvero colpevoli, anche perché in questo caso sarebbe davvero complesso intervenire per cambiare la situazione, se non sperare in un lento ma costante incremento del tasso di scolarità delle nostre democrazie. Forse un impegno da parte della classe dirigente, quell’ “élite” istruita di cui si è trattato sopra, a rinunciare a parte di quegli ideali che possono anche essere o sembrare giusti, ma che creano una distanza pesante e sentita con le classi meno abbienti e soprattutto istruite, potrebbe portare ad una società più coesa, ed in definitiva, meno estremista. Paradossalmente, la strada potrebbe essere quella del “rinuncio a qualcosa io purché rinunci a qualcosa pure tu”, in una strada che porti ad un compromesso interclassista e che riporti nuovamente questa parola, compromesso, nel vocabolario politico, quando negli ultimi anni è stata proprio la sua mancanza ad aver fatto nascere dei mostri che inneggiano al nazismo, all’uccisione dei figli dei rom o altre amenità. Non perché sia per forza la strada a livello teorico migliore, ma perché probabilmente lo è a livello pratico, ed in una situazione come quella attuale, un po’ di pragmatismo non guasterebbe.
Ex Studente di Finanza presso la Warwick Business School, ora lavora nel settore assicurativo in UK. Appassionato di politica ed economia, in passato ha militato tra le file del PD come Civatiano.
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Ex Studente di Finanza presso la Warwick Business School, ora lavora nel settore assicurativo in UK. Appassionato di politica ed economia, in passato ha militato tra le file del PD come Civatiano.
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