Se c’è una cosa che riesce particolarmente bene ai giornalisti italiani è la creazione di nuove parole.
Il modus operandi è molto semplice: prendere una parola, esistente o meno, ed attribuirle un significato dal grande impatto mediatico. Un caso esemplare, che torna a periodi alterni sulla bocca di ogni buon giornalista da pausa pranzo, è il femminicidio.
In realtà questo termine esiste già da diversi anni in ambito criminologico e sociologico e definisce quegli omicidi, nei confronti delle donne, la cui caratteristica peculiare è, appunto ma non solo, il genere della vittima.
Da qualche anno in Italia molto grossolanamente questo termine indica invece un qualsiasi omicidio nei confronti di una donna. Moglie, madre, figlia, conoscente, premeditato, non premeditato, non ha importanza: è femminicidio. La sola qualità di essere femmina determina che l’omicidio è femminicidio.
Negli ultimi tempi in Italia sta dilagando, drammaticamente, un fenomeno che appare incontrollabile, che ha suscitato l’interesse di diverse persone che acclamano un intervento legislativo ad hoc per risolvere il problema. Gelosia, tradimenti, mancata ottemperanza dei doveri coniugali, ribellione, stalking fanno da sfondo al macabro scenario cui ci stiamo tristemente abituando. La cronaca ne è piena. A cosa si riferisce questa volontà comune che il legislatore intervenga una volta per tutte? Alla previsione di un apposito reato di femminicidio all’interno del codice penale o comunque a un aggravamento del semplice omicidio. L’articolo 575 del codice penale dispone: “Chiunque cagioni la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. Il codice è chiaro,la parola femminicidio non appare nella norma in esame e non appare nemmeno come aggravante nei successivi articoli. Non è una di quelle ipotesi che comportano un inasprimento della pena come i futili motivi, le sevizie o la crudeltà.
L’omicidio è unico, sia riferito ad un uomo che a una donna, è immune dalle varie definizioni sociologiche. Statisticamente il problema, seppur esistente e non giustificabile, non è incontrollabile come invece appare nei vari notiziari.
Secondo le statistiche della comunità europea, il livello di omicidi in Italia è al di sotto della media in Europa e comunque il numero di vittime femminili è nettamente al di sotto di quello maschile. La previsione di un’apposita norma di “femminicidio” è comunque impensabile, si presupporrebbe un trattamento diseguale per situazioni simili, una diretta violazione dell’articolo 3 della costituzione là dove sancisce l’eguaglianza. Eguaglianza che deve prescindere dagli status sociali, eguaglianza della persona come biologicamente tale e non come soggetto portatore di uno status, questa definizione di persona è già stata abbandonata dopo la seconda guerra mondiale.
Molto più utile, in termini di giustizia e di efficacia, apparirebbe una piena equiparazione della moglie agli altri familiari nell’articolo 577, avvenendo in famiglia la maggior parte degli omicidi (ancora una volta, omicidio della moglie, uxoricidio volendo essere precisi, non femminicidio).
L’utilizzo di termini come “femminicidio”, conduce all’effetto contrario rispetto a quello desiderato, costituisce la regressione della parità. Più che invocare pene maggiori è molto più utile, ragionevole, efficace,giusto e conforme a un Paese evoluto, prevenire, come per ogni altra cosa, il fenomeno.
Come già sta provvedendo a fare la Comunità Europea, non sicuramente in riferimento ad un “femminicidio” inteso come omicidio di una donna, ma come appare nel suo significato originario. Non è sbagliato allora l’utilizzo di tale termine se esso si riferisce a ciò che veramente è: l’annullamento della donna in quanto tale. Rievocare una parola che fonda la sua origine in Messico, dove l’omicidio della donna aveva scopo punitivo, al solo fine di ottenere facili titoli da testata ha un che di macabro. Ma si sa, siamo attratti dal macabro e la speculazione mediatica non avrà fine, almeno per ora.
Nato in provincia di Vicenza nel 1990. Laureato in Consulenza del lavoro e laureto in giurisprudenza all'università di Padova, praticante avvocato. Scrivo per IMDI dal 2013.
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Nato in provincia di Vicenza nel 1990. Laureato in Consulenza del lavoro e laureto in giurisprudenza all'università di Padova, praticante avvocato. Scrivo per IMDI dal 2013.
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