Sebbene non si tratti di un gioco tra le nuove uscite credo che scrivere questa recensione possa essere utile a quegli utenti che, facendosi troppo influenzare da alcune piccole pecche di questo gioco, ne hanno rimandato l’acquisto al duemilamai. Mirror’s Edge, come tutti i giochi che non obbediscono a dinamiche già collaudate e le ripetono fino alla nausea (coff.. Cod.. coff), è un piccolo esperimento di cui ora converrebbe appropriarsi, visto anche il sensibile calo di prezzo (quando dicevo che non è proprio tra le nuove uscite alludevo al 2008). Il gioco narra la storia di Faith, tipa abbastanza figa che fa da corriere di informazioni in un mondo dominato dalle multinazionali in un lontano (???) futuro. Questa atletica eroina si trova a dover aiutare sua sorella, accusata dell’omicidio di un importante industriale, salvo poi finire in una cospirazione letale (che poi pensavo: sono poche le cospirazioni non letali, cioè quelle che ti feriscono gravemente e pace… vabbè) dalla quale solo i suoi riflessi e la sua rapidità potranno salvarla.
Ovviamente chi non ha mai sentito parlare del gioco (oltre a doversi chiedere cosa ci fa in una sezione chiamata “it’s ok to be game”) immediatamente deve essersi chiesto “ma di quali piccole pecche parliamo?”. Bene, diciamo che se vivete in America, in Inghilterra o anche solo in Finlandia le piccole pecche sono solo dal punto di vista dei comandi, che talvolta potranno sembrarvi leggermente poco collaborativi (specie per quanto riguarda le armi) o alcune texture poco dettagliate negli interni. Se invece vivete in Italia, dove sul tricolore andrebbe scritto “tengo famiglia”, vi imbatterete in un doppiaggio di Faith ad opera di una figlia d’arte. Una grandissima figlia… d’arte. Parlo naturalmente di Asia Argento, che in questo gioco ci offre un’interpretazione e un pathos da fare invidia a Stephen Hawking. Giocate il gioco in lingua originale e non avrete l’impressione che Faith sia un androide, e magari avrete anche la percezione di non vivere nella terra della raccomandazione perpetua, chissà. Chi ha giocato al gioco potrebbe obiettare che il sistema dei salvataggi rende tutto ripetitivo. Bè sì, confermiamo che il sistema dei salvataggi è obiettivamente progettato per sfracassare la minchia, ma questo non è un male: impari a padroneggiare meglio le tecniche, trovi un percorso più facile e soprattutto porti a 123412341 le 4 ore di gameplay effettivo.
Ma ora voi direte, perché minchia dovrei comprare un gioco che ha tutti questi problemi? Bè, prima di tutto (cosa relativamente poco importante) perché attualmente non costerà una sega di niente. Ma soprattutto perché è uno dei pochi che, quando lo giocai a suo tempo, non mi fece venire voglia di vendicarmi sugli sviluppatori con la regola del contrappasso (e credetemi, ce ne vuole). Stiamo parlando di un gioco che risponde alla perfezione al suo scopo primario: la body experience. Questo gioco pretende (e ottiene) di farci emozionare ad ogni salto, di farci muovere il corpo in avanti quando siamo sospesi in aria e di farci sperare fino all’ultimo che Faith riesca ad aggrapparsi a quella sporgenza a cui stiamo disperatamente puntando. Inoltre riuscire ad inanellare una serie di movimenti aumenta la nostra velocità, rendendo la sfida sempre più impegnativa: quando, verso la fine del gioco, saremo riusciti ad apprendere alla perfezione tutti i comandi, avremo la percezione di un flusso continuo di movimento a nostra disposizione, di infiniti percorsi da scoprire e percorrere nel minor tempo possibile. La percezione di essere liberi.
NB: è un comunicato commerciale, va interpretato. Faith è libera, tu potresti essere il solito babbo che gioca ai videogames e pesa duecentocinquanta chili, nel qual caso la tua libertà consisterà semplicemente nel trovare un percorso più breve per McDonald.
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