Durante il mese di marzo abbiamo avuto l’occasione di parlarvi di un sacco di cose interessanti: dal neo presidente degli Stati Uniti e dei suoi avversari musicali all’addio ad uno dei padri del rock ‘n’ roll, passando per artisti di internet, leggende della musica disco, musicisti con il cappello e gli occhiali da sole e un viaggio alla scoperta della musica nel Rinascimento. In particolare abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con gli Edonè, trio palermitano emergente. Ma ora bando alle ciance e come di consueto, ecco i cinque dischi che ci hanno colpito di più usciti a marzo.
Ultimo, notevole lavoro dei Magnetic Fields, 50 Song Memoir è la celebrazione dei cinquant’anni del leader del gruppo Stephin Merritt. L’album, uscito il 10 marzo, è una raccolta di cinque dischi da dieci brani ciascuno, ognuno a rappresentare un anno nella vita di Merritt.
I Magnetic Fields non sono certo nuovi a progetti così ambiziosi: già nel 1999 la band americana aveva realizzato un’opera concettualmente molto simile, il triplo 69 Love Songs, dove l’amore era il tema centrale dell’album e ogni canzone ne esplorava un differente aspetto. 50 Song Memoir, invece, è una sorta di biografia in musica della vita di Stephin Merritt, la vera mente dietro ai Magnetic Fields.
Come si è già detto, la figura centrale dell’opera è Merritt il quale, con la sua riconoscibile voce grave, narra episodi della sua vita ed eventi particolarmente rilevanti che l’hanno segnata. Nonostante ciò, l’album non è un capriccio egocentrico del musicista di Boston, ma qualcosa di ben più profondo: Merritt non scrive con l’intenzione di mettersi in mostra, ma vuole ripercorrere i momenti salienti della sua vita, sia quelli di felicità che di tristezza, mostrando una capacità compositiva invidiabile e sottolineata dalla moltitudine e varietà di strumenti utilizzati durante le registrazioni del disco.
50 Song Memoir non è certo un album facile da affrontare, ma lo sforzo compiuto per ascoltarlo viene ripagato: cinquant’anni compressi in due ore e mezza di musica per un’opera che, dopo una serie di album discreti ma senza nulla di eccezionale, segna il ritorno dei Magnetic Fields quasi agli albori della loro produzione degli anni ’90. (Vittorio Comand)
Mono No Aware è un concetto giapponese difficilmente traducibile, che esprime una forte sensibilità e attenzione verso la bellezza della natura e dell’uomo.
Sin dal titolo è possibile comprendere la poetica di fondo che pervade la prima compilation rilasciata dall’etichetta discografica P-A-N, una delle principali fucine della scena musicale post-club, casa di artisti come M.E.S.H e Yves Tumor. Poetica che parte dal concetto estetico per entrare nella sfera personale, fissando l’attenzione sul dinamismo della realtà e sul come il nostro vissuto e le nostre memorie influenzino lo scorrere del tempo, parafrasando le parole di Bill Kouligas, fondatore e artista associato alla label.
Una raccolta di 16 brani che ridefiniscono il concetto di musica ambient, sia nel significato che nelle sonorità: non più semplice musica di sottofondo, statica, ma passaggi sonori in continua evoluzione, che virano da tappeti di synth rumorosi a calde sequenze di synth, come nella splendida justforu di Mya Gomez, che termina con una serie di tenui note di pianoforte sintetico. La casa discografica P-A-N si conferma nuovamente uno dei motori trainanti non solo della scena post-club, ma della musica elettronica degli ultimi anni, sradicando i canoni preimposti e spingendo le sonorità di generi come house, grime e adesso perfino ambient oltre il punto di non ritorno. (Simone Barondi)
Mount Eerie, progetto dietro al quale si cela il musicista Phil Elverum, colpisce dritto al cuore con il suo ottavo album in studio, A Crow Looked at Me, pubblicato il 24 marzo.
La morte della moglie di Elverum, l’artista canadese Geneviève Castrée, è la spinta emotiva che trascina l’album: colpita da un incurabile cancro al pancreas, la trentacinquenne moglie di Elverum si è spenta nel luglio dell’anno scorso, lasciando il marito e la figlia di poco più di anno.
A Crow Looked at Me, pur nella sua semplicità e nella delicata voce di Elverum, è un pugno dritto nello stomaco, lo struggente messaggio di un marito rimasto vedovo e con una figlia appena nata di cui occuparsi. La morte, apparentemente così distante, sconvolge in breve tempo la vita del cantautore americano. La scomparsa di Geneviève, definitiva e irreversibile, diventa improvvisamente realtà per Elverum, aggrappato all’amore per la figlia per riuscire ad andare avanti.
Le undici tracce di cui è composto il disco, nonostante non brillino per fantasia, sono dei piccoli, commoventi gioielli pieni di disperato amore: a differenza dei dischi precedenti di Mount Eerie, A Crow Looked at Me è interamente realizzato dalla sola voce di Elverum che si stende leggiadra su un flebile arpeggio acustico di chitarra. Il tema portante del disco però non è la morte in sé, quanto il devastante lutto che Elverum si trova di colpo a dover affrontare, solo contro il mondo nel suo dolore: un dolore talmente forte e nitido che è in grado di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore dall’inizio alla fine dell’album. (Vittorio Comand)
Pulviscolo è il disco di debutto di Giovanni Imparato, agli appassionati noto per accompagnare dal 2012 la cantautrice Maria Antonietta (sua la produzione dell’album Sassi).
Qui alla sua prima prova solista per la romana Bravo Dischi, dopo i due album con i Chewingum, Imparato ha scelto di racchiudere i suoi pezzi sotto il moniker di Colombre, dal racconto omonimo del celebre Dino Buzzati. Nella fantasia dell’autore, il Colombre era un orribile mostro che spendeva i suoi giorni ad inseguire un pescatore, il quale ne scappava terrorizzato, per poi scoprire solo in fine di vita che il mostro volesse solamente elargirgli un prezioso dono.
Proprio come la poetica di Buzzati, Colombre è insieme sereno e fiabesco (negli arrangiamenti) quanto amareggiato ed angosciato (nei testi): nelle otto morbide tracce di Pulviscolo, Imparato dimostra di aver compreso la lezione (e la ricetta per il successo) del predecessore Calcutta, superandone, però, stonature, arrangiamenti scheletrici e forzature linguistiche. In Pulviscolo tutto è finemente cesellato per risultare immediato, ma studiato, con la registrazione in presa diretta a dare quel pizzico di grinta e di imperfezione che impreziosisce il prodotto (ascoltare il modo in cui Fuoritempo annega in una indefinita massa di suoni senza senso, per credere).
Tra le ritmiche sghembe e psych della title track, il funk di Dimmi tu che sembra uscito da un album di Alan Sorrenti e sopratutto la perla che è Blatte (impreziosita dalla produzione, dai synth e dai cori soul di Iosonouncane) e con la chiusura Deserto (questa diretta e preziosa citazione de Il Deserto Dei Tartari di Buzzati) si delinea un album denso di citazioni italiane e non, breve, ma non per questo poco importante. Pulviscolo, più correttamente, è una impalpabile manciata di sabbia, un gioco dolceamaro che merita le giuste attenzioni, un semplice album di buon pop senza scadere in facili compromessi. (Luigi Buono)
Il mese di marzo è stato un mese fitto di uscite per quanto riguarda l’indie italiano: dai ritorni de Le luci della centrale elettrica (Terra) e Lo Stato Sociale (Amore, lavoro e altri miti da sfatare), ormai consacrati come i Backstreet Boys della scena indie italiana, fino all’esordio di Gazzelle con il suo disco pop Superbattito, passando per Nebbia dei Gazebo Penguins. Ma fra questa varietà di album più o meno gradevoli, a spiccare è l’ultimo lavoro dei Fine Before You Came, Il numero sette.
I FBYC tornano dopo cinque anni dal precedente disco Ormai, confermandosi uno dei gruppi più interessanti del panorama italiano. L’aspetto più caratteristico del sound di questo album è il mix armonioso fra le due influenze più forti che hanno contraddistinto l’intera carriera dei FBYC: l’emo ed il prog. In particolare, l’utilizzo delle chitarre sembra essere un chiaro riferimento agli American Football, band di riferimento nel genere emo. Inoltre, nella parte finale del disco sembra prendere il sopravvento una deriva screamo, dando un taglio ancora più incisivo rispetto all’inizio dell’album.
Ne Il numero sette, ognuna delle canzoni è funzionale alla costruzione dell’album, concepito per crescere di intensità man mano che si avanza nell’ascolto: dalla partenza tranquilla ci si ritrova trascinati in un abisso fatto di malinconia, come se si stesse sprofondando nelle sabbie mobili.
Questo disco è la conferma di un percorso artistico ben preciso per uno dei gruppi migliori della scena indie italiana. Un disco che sembra il perfetto accompagnamento di queste domeniche primaverili, dove il caldo inizia a farsi sentire senza che il freddo se ne sia ancora andato del tutto. (Gianni Giovannelli)
9 Gennaio 2017
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