Vi è mai capitato di guardare un film talmente pieno di clichè da risultare veramente vomitevole? Su, non mentite. Sappiamo tutti che, probabilmente in un accesso di noia, oppure per semplice ignoranza, avete visto almeno un “Natale in *posto fiko dove li itagliani voliono andare*” con De Sica & Co. E infatti, si può addirittura dire che il ritardo mentale di un italiano è direttamente proporzionale al numero di cinepanettoni che ha visto. E chiaramente concordiamo anche sul fatto che facciano schifo, vero?
Ma sto divagando, perché non è mia intenzione perdere preziosissimi kilobyte di internet per denigrare dei film che si insultano da soli.
E’ mia intenzione, invece, dimostrarvi che l’uso di clichè cinematografici non è, per principio, la morte del cinema. E vi porto un esempio: la commedia drammatica “In Bruges”, del 2008, diretto da Martin McDonagh, con le star Colin Farrell, Brendan Gleeson e Ralph Fiennes.
Tralasciando la trama, che scoprirete guardandovelo, vi spiego subito il perché della mia precedente affermazione, ovvero che i clichè possono caratterizzare positivamente un film.
In Bruges è un film con un intreccio piuttosto lineare, cronologicamente parlando. Ma la fabula è favolosamente ambiziosa e contorta, seguendo un filo imposto dai comportamenti dei personaggi, in modo che ogni più piccola loro azione o inazione ha effetti cruciali sulla storia. Il risultato finale sembra essere semplicemente la conseguenza di casi fortuiti e del incrocio delle vicende dei personaggi, che portano alla realizzazione della trama.
I personaggi poi, sono dei veri e propri stereotipi: c’è il ladro scemo, l’innocente, il buono, il cattivo, la gnocca (neanche tanto poi), il nano pazzo, la vittima, il killer colto, e così via. Inutile dire che questi elementi, combinati con una colonna sonora veramente spettacolare e una location dall’aria fiabesca ( il centro storico di Bruges, per l’appunto) ti portano a pensare di avere a che fare con, ad esempio, un’opera teatrale di Goldoni, con i sui personaggi scontati e intrecci prevedibili. Eppure, stranamente, McDonagh riesce a utilizzare tutti questi clichè in modo per niente scontato creando una storia piena di suspence e per niente prevedibile, in cui ogni scena ti sorprende e riesce a farti pensare “era chiaro che sarebbe successo così” e anche “cavolo, non me l’aspettavo” nello stesso momento, cosa che è chiaramente indice di grande maestria, e anche spavalderia, vista la scelta di percorrere il sottile filo tra il banale e il ricercato (tanto per dire, non sono poche le scene cariche di un fine significato allegorico ).
Long story short: è uno dei pochi film che è riuscito a farmi stare con il cuore in gola dall’inizio fino alla fine. Guardatevelo!
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