“Se un giorno le api dovessero scomparire, all’uomo resterebbero soltanto quattro anni di vita“
Mal attribuito ad Einstein ma bensì proveniente da volantini delle Associazioni Nazionali Apicultori (Fr e B) – 1994
Il “Colony Collapse Disorder” è un fenomeno osservato per la prima volta nel 2006 in Nord America, dove la notevole perdita di colonie di api -attorno al 30/40%-, è stata collegata ad un particolare spopolamento e abbandono degli alveari. Nel 2007 è capitato poi in Paesi Europei come Francia, Italia, Belgio, Olanda, Grecia e la penisola Iberica.
Un alveare che va a morire di”CCD” è riconosciuto da 3 sintomi:
– Ma perché a questo fenomeno si è sentito il bisogno di dare un nome?
Intanto perché la produzione del cibo necessario all’uomo dipende dall’opera degli insetti impollinatori, tra cui le api, e registrare un calo così netto della loro presenza significa dover porre l’attenzione sulle cause che lo hanno scatenato per evitare conseguenze spiacevoli, in primis, appunto, nell’interesse dell’uomo.
Soprattutto la produzione di fragole, pomodori, mele e mandorle verrebbe colpita da un calo numerico di questi preziosi insetti, ma fino al 75% di tutte le nostre colture subirebbe una riduzione di produttività, qualora dovessero sparire. Ricordiamoci che il 35 per cento della superficie terrestre emersa e non ricoperta da ghiaccio è occupata da coltivazioni e pascoli.
Oltre a ciò, anche la vegetazione selvatica dipende dall’impollinazione, per riprodursi, quindi si può dire che più di un ecosistema dipenda da questi esserini con le ali sia che siano allevati, sia che selvatici si trovino già in difficoltà per mancanza di habitat naturali/semi-naturali a causa della urbanizzazione.
– Ma qual è la reale situazione di questi insetti?
Bisogna ammettere che è difficile stabilirlo perché l’attuale mancanza di dati precisi non permette di stabilire le condizioni di salute di queste specie sia in termini di quantità che di biodiversità con gradi di variabilità estremamente alti.
“Non è possibile attribuire ad un solo fattore il calo complessivo della popolazione di api o della loro salute generale. –recita Bees in Decline, un report di Gennaio 2013 ad opera di Greenpeace Research Laboratories – Questo calo è senza dubbio il prodotto di molteplici fattori, alcuni noti e altri sconosciuti, che agiscono singolarmente o in combinazione tra loro”.
Tuttavia, la ricerca suggerisce che le cause finora individuate siano 3:
Non su tutti questi fenomeni possiamo intervenire. Per quanto riguarda il primo punto, gli acari (sottoclassi di aracnidi) parassiti Varroa destructor e Nosema ceranae sono contrastati negli allevamenti – tra le altre tecniche come il rinforzo delle famiglie con nuove api- con sostanze a base di olii essenziali (mentolo, timolo). Ma questi solo due dei loro agenti patogeni e di solito per evitare epidemie si sopprimono gli alveari maggiormente colpiti.
Il secondo e il terzo punto, seppur non determinanti, combinati assieme e con il primo possono determinano un indebolimento delle api andando ad aumentare i loro livelli di “stress” e quindi una maggiore esposizioni a malattie e parassiti. Eventi meteorologici più estremi come l’aumento delle temperature e l’irregolarità delle precipitazioni hanno un impatto sia sulle api singole che sulle comunità. Sembra che in Polonia ad esempio le api anticipano il risveglio dal letargo invernale, intervenendo così sulle date di fioritura delle piante.
Lo sviluppo esponenziale della coltura intensiva (terzo punto) ha messo sotto pressione la più lenta crescita degli insetti impollinatori che non sarebbero in grado di soddisfare “la richiesta”, neppure sostituendo impollinatori autoctoni con api domestiche, a causa della perdita della diversità degli habitat. Infatti le tecniche di coltivazione di carattere industriale includono vastissime monocolture ed un uso massiccio di fertilizzanti chimici, erbicidi e pesticidi.
Questi ultimi, seppure non se ne conoscano i complessivi effetti a livello globale, influiscono sulla salute degli insetti in vario modo, per esempio sul sistema immunitario, sul tempo di raggiungimento dello stadio adulto e su tipi di malformazioni, e creano interferenze sulle loro capacità olfattive, di orientamento, di riconoscimento di arnie e e fiori.
Alcuni di questi pesticidi, come i neonicotinoidi, sono di tipo sistemico, ovvero accompagnano la pianta in tutto il suo ciclo vitale, esponendo le api ad una assunzione continua, seppur a basse dosi, con gli effetti sopracitati.
Non a caso dove arriva l’agricoltura industriale si registra un calo del numero degli impollinatori selvatici “e di conseguenza dei servizi ecosistemici che forniscono alle colture.” In questo modo il danno dei pesticidi supera il beneficio che ne dovrebbe derivare ovvero il controllo dei parassiti per una maggiori produttività agricola.
– E le autorità cosa fanno?
I finanziamenti pubblici che la Ricerca mirata a sviluppare migliori pratiche agricole come l’agricoltura biologica meriterebbe, vengono tuttora orientati verso le tecniche convenzionali chimico-dipendenti, nonostante sia stato dimostrato come il rendimento sia pressoché invariato in entrambi i tipi di coltura, con uno scarto però fondamentale in quando ad impatto ambientale.
Il Parlamento Europeo il 29 Aprile scorso ha votato a favore del bando parziale dei neonicotinoidi, e la Commissione europea ha preso l’impegno di metterlo in atto. Anche se l’Italia ha votato contro, già dal 2008 sono parzialmente banditi con un decreto temporaneo che ne vieta l’uso, reazione scatenata dalle morie anomale del 2007, e che verrà prorogato a Giugno 2013.
Merita segnalazione il fatto che nonostante la loro sospensione non sono stati registrati, nella coltura di mais, da Apenet -un progetto di monitoraggio del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura- maggiori difficoltà di gestione dei parassiti né diminuzioni di rendimento produttivo.
Per maggiori informazioni: Articolo del Corriere, il Rapporto Completo “Bees in Decline”
A presto,
vostra DerBZZZina
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