Nel settembre 2016 vennero rilasciati diversi teaser del live action di Ghost in the Shell annunciato per il 2017, e le reazioni furono quelle dei tipici fan che si vedono regalato un nuovo, luccicante mattoncino da aggiungere alla saga. Tralasciando la questione del whitewashing, gli elementi per un grande successo ci sono tutti: sceneggiatura originale, l’enorme avanzamento delle tecnologie cinematografiche e Scarlett Johansonn, che, quando non è impegnata a salvare il mondo con Tony Stark e compagnia, ha più volte dimostrato la sua bravura.
Il risultato potrebbe rivelarsi però un grande fallimento, mascherato dal successo al botteghino. Bisogna considerare che esiste un modo semplice, e molto conveniente, per rovinare fin da subito una pellicola come questa: snaturare l’opera originale per adattarla ai gusti del grande pubblico.
Alcuni elementi del film d’animazione originale (1995) fanno fatica ad essere presi in considerazione da qualsiasi regista, soprattutto per un film destinato al grande (e giovane) pubblico, che si aspetta di entrare in sala e godersi l’ennesimo film d’azione tecnothriller futuristico. La prima caratteristica tra tutte è la lentezza. La capacità del regista di dosare la dinamica è importantissima, ed è qualcosa che nei film più – perdonate il termine – commerciali si sta perdendo. Un esempio: nel film originale, la sequenza di circa quattro minuti, senza alcun dialogo e con numerose inquadrature della metropoli, ci trascina con tutta la potenza di un impatto puramente visivo in una metropoli corrotta, sciupata, in cui l’importanza dell’uomo è inferiore a quella del sistema e l’individuo è infelice e inconsapevole. Tutti questi concetti ci vengono trasmessi con delle immagini lente, estremamente poetiche, dai colori tendenti al grigio ai quali si sovrappongono neon aggressivi, che ci raccontano la solitudine e la freddezza. È un’atmosfera cupa, triste, di degrado, che rimanda ai mondi di capolavori come Blade Runner. La lentezza di queste inquadrature è la loro forza: il regista ci obbliga a vedere quello che non vogliamo notare. Ghost in the Shell provoca sgomento, che in uno spettatore abituato a film estremamente dinamici non viene compreso e spesso è catalogato come noia.
Un altro fattore è l’importanza della protagonista in relazione al suo mondo. Nonostante le azioni intraprese dai personaggi siano importanti in quanto risultato di un intrigo internazionale (anzi, ultra-nazionale, se consideriamo il web un’ulteriore zona in cui ci si può immergere e spostare, come il mare in cui si tuffa il Maggiore), e nonostante la protagonista sia in qualche modo una prescelta dalla Rete, il suo personaggio non è autocelebrativo come quelli dei grandi successi commerciali degli ultimi anni, nei quali gli spettatori cercano di identificarsi per vivere il sogno (vedi la saga di Harry Potter, quella di Twilight o i più recenti Star Wars). Il mondo attorno a lei non è influenzato a livello macroscopico dalle sue azioni, e quando la protagonista prende la decisione più importante, quella che cambierà per sempre la linea di separazione tra umano e artificiale, e si congiunge con il Burattinaio unendosi al Tutto, fa quello che le nuove generazioni vedono come un atto orribile e disumano: rinuncia alla propria individualità e diventa parte del sistema. Ammette che lei, in quanto individuo, non è più speciale degli altri, se non per il fatto di averlo compreso e accettato. Tanto che nel finale la nostra eroina non esiste più: è diventata parte di qualcos’altro. «And where does the newborn go from here? The net is vast and infinite».
Infine, la contestualizzazione dell’opera originale. Essa non è fine a sé stessa: è il risultato di una riflessione filosofica, attualissima ancora ventisette anni dopo il suo concepimento e destinata a rimanerlo per molto tempo ancora. Si pensi che le sorelle (ex-fratelli) Wachowsky si sono fortemente ispirati a Ghost in the Shell per la creazione della famosa saga di Matrix, che riprende molti dei temi trattati. La storia del Maggiore pone moltissime domande, e restituisce poche risposte, sulla funzione della tecnologia, sull’autocoscienza, sulla definizione di vita, e su quando tutte queste si fondono tra loro, terminano e iniziano. Prima di essere intrattenimento è motivo di riflessione, ben lontano dalla maggior parte dei film d’azione distopici e di fantascienza degli ultimi anni.
In breve, una trasposizione live action fedele potrebbe essere qualcosa che ai non appassionati, semplicemente, non interessa e non piace. Ci sono registi – e, ancora più importante, produttori – che proseguono la loro strada per un successo sul lungo tempo e per rispetto dell’originale, e ce ne sono altri che scelgono l’opzione facile di un film fatto di frasi d’effetto, sparatorie ed eroismo. Opzione più che facile, data la presenza della Johansonn e un eventuale buon investimento sugli effetti speciali.
Ghost in the Shell uscirà a fine marzo. Chissà quale strada verrà intrapresa.
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