Superate le vacanze natalizie e la fine dell’anno, gennaio ci ha riportato nella solita routine quotidiana. Durante questo lungo mese abbiamo scelto i nostri dischi preferiti del 2016, vi abbiamo parlato di cantanti dimenticati, pianisti odiati, chitarristi amati, abbiamo intervistato Richard Benson e abbiamo cercato di capire quali potrebbero essere i migliori album di quest’anno. Inoltre, vi abbiamo guidato all’ascolto della post-club music, siamo andati all’indietro nel tempo di vent’anni e vi abbiamo segnalato alcuni dei casi di plagio più clamorosi della storia della musica.
Dopo il buon successo ottenuto da The North Borders quattro anni fa, il musicista e produttore britannico Bonobo – all’anagrafe Simon Green – riesce finalmente a fare il salto di qualità con il suo sesto album in studio, Migration, pubblicato il 13 gennaio.
Migration rappresenta il punto più alto della carriera di Bonobo, ormai a più di quindici anni di distanza dal suo disco d’esordio Animal Magic. La sua musica riesce abilmente a mischiare generi differenti in un’opera quanto meno raffinata: se un brano come Outlier rientra nella definizione più canonica di musica elettronica, in Bambro Koyo Ganda la collaborazione con il gruppo marocchino Innow Gnawa contribuisce a dare al brano una netta impronta tribale, mentre Break Apart è un malinconico sfogo sulla fine di una relazione, impreziosita dalla presenza del duo Rhye. Altre featuring degne di nota sono quella con Nick Murphy, alias Chet Faker, nella hit da discoteca No Reason e quella con la cantante Nicole Miglis nella ipnotica Surface.
In tutto questo l’equilibro sonoro è ben compatto, nonostante la sostanziale diversità degli elementi portanti della musica: all’incessante beat in quattro quarti si contrappongono momenti decisamente più delicati e soavi, a brani fortemente strumentali si intervallano tracce cantate con una levità formidabile. Un album versatile quindi, un abile esercizio di stile da parte di un musicista capace e artisticamente maturo che trova in questo disco una formula di equilibrio invidiabile, raggiungendo la sua definitiva consacrazione. (Vittorio Comand)
Se c’è un merito da riconoscere all’ormai defunto fenomeno dubstep è stata la sua funzione di bacino musicale, vero e proprio brodo di coltura per la nascita e la crescita di alcuni artisti che hanno ereditato non tanto i connotati sonori di un genere nato e diventato ben presto una moda dai canoni stringenti, quanto la volontà di creare un proprio linguaggio musicale stravolgendo il concetto stesso di musica elettronica e di ritmo.
In questo percorso Shackleton, cresciuto fra il punk e i club dancehall, ha virato completamente la sua musica verso territori oscuri e complessi, fatti di ritmi africani, pad solenni e strutture complesse: Sferic Ghost Transmits, prodotto in collaborazione con il vecchio amico Vengeance Tenfold, è il suo lavoro più ambizioso e maggiormente proteso verso questa direzione. In questi brani la forma canzone viene completamente superata per lasciare spazio a vere e proprie suite dilatate dalla durata minima di 10 minuti, in cui si sovrappongono tessuti spessi di pad, bordate elettroniche e percussioni sferraglianti, creando intrecci armonicamente e ritmicamente complessi sui quali si staglia lo spoken solenne di Vengeance, nelle vesti di oscuro cerimoniere, che sfocia a volte in un vero e proprio cantato.
Esempio emblematico è la centrale Spheric Ghosts / Fear the Crown, in cui un basso terreno fa da sfondo a divagazioni cosmiche che portano l’ascoltatore sempre più lontano dal punto di partenza e sempre più immerso nella visionaria cosmologia di Shackleton. (Simone Barondi)
Non dev’essere stato semplicissimo per i Baustelle trovare un successivo passo da fare dopo il monumentale ed orchestrale Fantasma, un apice definito dallo stesso Bianconi “una ingombrante eredità”. L’amore e la violenza nasce proprio da ciò, da una ricerca di freschezza e di un sound più diretto che quasi naturalmente si concretizza in un ritorno al pop appiccicoso ed orecchiabile delle prime produzioni della band di Montepulciano, in particolare a La moda del lento, quel secondo album non sempre preso adeguatamente in considerazione, stretto com’era tra gli esordi de Il Sussidiario… e le prime velleità da classifica de La Malavita.
L’album potrebbe apparire ad un primo ascolto tipicamente “baustelliano”, tra le classiche influenze di Battiato, synthpop e chansonnier, eppure va ad effettuare una sintesi fresca ed interessante nel suo andare a muoversi tra le sonorità giovanili dei primi Baustelle ed i testi ormai maturi di Bianconi, qui più attuale che mai nel parlare di storie di violenza e passioni di tutti i giorni e nel lanciare frecciate (ironicamente, per mezzo di canzoni “leggere” ed “oscenamente pop”) a tutta la scena italiana attuale, comprese le loro “cazzo di parole senza senso dentro le canzoni”.
Impossibile non restare affascinati ascoltando liriche e ritmi de Il vangelo di Giovanni o non battere il piede a tempo stregati dal groove di Betty, Basso e batteria o L’era dell’acquario: L’amore e la violenza riesce anche negli arrangiamenti, permeati di synth e campionamenti, a non far sentire troppo la mancanza dei fasti e degli abbellimenti orchestrali del disco precedente. Un buon album che dimostra come si possa riuscire ad essere impegnati e mai vuoti pur risultando smaccatamente pop, un lavoro che pur basandosi su sonorità già ampiamente sperimentate, cresce ascolto dopo ascolto, senza che disdegni di lasciarsi canticchiare sotto la doccia. (Luigi Buono)
Il 13 gennaio è uscito l’ultimo album da solista di Rick Wakeman, storico tastierista degli Yes, band prog britannica, e personaggio importante nella storia del genere. Questo disco nasce in seguito all’inatteso successo della cover di Life on Mars, realizzata e suonata a inizio 2016 come tributo a David Bowie, allora appena deceduto.
In quest’opera Wakeman decide di inserire, oltre a varie cover di brani importanti nella storia del rock (son presenti, oltre a due cover di pezzi di Bowie, cover dei Beatles, Led Zeppelin e altri) anche dei suoi arrangiamenti di composizioni classiche (come ad esempio Il Lago dei Cigni di Čajkovskij) o tradizionali. Wakeman si conferma non solo un tastierista fra i più influenti nel suo campo, ma anche un pianista classico assolutamente capace di dare il giusto tributo ai grandi compositori del passato.
L’album è diviso in 15 brani, di cui l’unico originale è Dance of the Damselflies, in cui si riconosce lo stile tipico di Wakeman durante gli anni negli Yes, allegro e pieno di occasioni per mettere in mostra l’eccezionale capacità tecnica dell’artista. Tutto il disco scorre piacevolmente, con cover più azzeccate di altre ma tutte che trovano perfettamente il loro posto in questa opera così ibrida e varia. Un disco pregevole, rilassante, apprezzabile non solo dai fan dello storico musicista ma anche da chi ama semplicemente il piano più “vecchio stile”. (Marco Meloni)
The xx tornano finalmente alla ribalta con un nuovo disco, I See You, dopo quattro anni dall’album Coexist e due dall’ottimo lavoro solista di Jamie xx In Colour.
Il primo cambiamento che si può notare è una maggiore impronta dance, come nel singolo che ha anticipato l’uscita dell’album On Hold: ciò in particolare lo si deve a Jamie xx, il quale aveva già sperimentato questo nuovo sound nel suo disco solista del 2015. Nonostante questo cambiamento, che rende l’album perfetto per far conoscere il gruppo ad un pubblico più vasto, rimangono segni del passato malinconico dei loro due precedenti album, come nella struggente Say Something Loving, con quel loro stile a metà tra l’indie rock contemporaneo, l’elettronica e la new wave.
Fra le canzoni migliori di questo album, oltre le già citate Say Something Loving e On Hold, ci sono anche Lips, con una intro che ricorda molto i canti gregoriani, Replica, I Dare You e A Violent Noise.
I See You, proprio come la sua copertina, è uno specchio in cui l’ascoltatore può guardare se stesso e vedere dentro a ogni singola canzone una sua esperienza di vita, il tutto grazie a una scrittura dei testi per niente autoreferenziale.
Un disco che riesce ad essere malinconico ed allegro, nostalgico e attuale, pop e sperimentale allo stesso tempo, riuscendo a conciliare, nella loro musica, diverse anime, facendolo diventare un disco simbolo dei tempi che stiamo vivendo. L’album nella sua completezza è perfettamente coerente con i precedenti lavori della band, confermandoli come uno dei gruppi più interessanti della scena indie. (Gianni Giovannelli)
9 Gennaio 2017
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