Quando si parla dei Dream Theater si intende il gruppo di musicisti probabilmente più tecnicamente avanzati del pianeta, e nessun altro genere può venire in mente se non il progressive metal.
In effetti, pur malleabili nei loro limiti, i Dream Theater si attestano come la più splendida verità di quel genere che hanno, se non inventato (con Images and Words nel 1992), sicuramente contribuito a rimpinguare più di ogni altro gruppo esistente.
E’ del 2009 l’album recensito oggi. La scelta è ricaduta su di esso perché è un album visto in modo piuttosto ambiguo dagli ascoltatori: si potrebbe tendere a considerarlo il primo dei Dream Theater “moderni”, ma rimane ancora parzialmente attaccato ai precedenti della band.
Per chi conosce la discografia di cui si parla, si potrebbe considerare Black Clouds una sintesi perfezionata dei due album precedenti, il duro Systematic Chaos e l’atmosferico Octavarium, che, forse proprio a causa di tali peculiarità, a parte singoli capolavori, potevano risultare avere un certo senso d’incompleto e vacuo.
Quello che l’ascoltatore troverà in Black Clouds & Silver Linings è tendenzialmente un progressive metal piuttosto duro, con chitarre sempre ai limiti dell’esplosione di gain, ma atmosferico grazie a un ottimo (e riempitivo) lavoro di tastiere di Jordan Rudess, e capace infine di alternare a momenti alti e poderosi parti soft molto curate ed evocative.
Il lavoro di tutti i membri appare funzionale alla nuova struttura delle canzoni, che paiono quasi tutte delle suite più heavy e continue della magnifica Octavarium (2005). John Petrucci riempie ogni spazio con ritmiche poderose alla Hetfield (a cui si ispira), riff progressive e duri, o assoli sublimati nella melodia più che nella sola tecnica. Jordan Rudess è più presente con molti fill e basi in synth, e anche le atmosfere sembrano avere più volume. Dal canto suo, Mike Portnoy resta fedele alla sua linea, con un drumming che non lascia spazio né fisico a battiti superflui, né retorico a critiche. Non a caso si tratta di uno dei migliori batteristi della storia: veloce nei punti giusti, sempre presente e potente, maestro dei cambi di tempo.
Per inciso (ma c’era bisogno di dirlo?) i tempi dispari spesso fanno da padroni nel disco.
Anche John Myung appare…il solito Myung: totalmente fedele alla canzone, tecnico quanto basta a non sbagliare mai nulla -in quest’album non c’è nessun assolo di basso, se non l’intro di A Rite of Passage.
James LaBrie, forse il cantante preferito di chi scrive, sopperisce agli oggettivi limiti live riscontrati fino allora con registrazioni studio sempre perfette. Da segnalare come il 2009 segni anche l’anno della rinascita del cantante canadese, che, probabilmente solo ora ripreso completamente dal gravissimo infortunio vocale, ricomincia un’ascesa verso livelli assolutamente professionali e invidiabili (che lo portano, ad oggi, ad essere un performer live finalmente continuo ed onesto, nonché ad avere l’estensione di un tempo, raggiunta con espedienti differenti).
Analizzando track by track (n.d.A.=se siete interessati solo a una recensione generale, potete saltare tale parte e recarvi direttamente alla fine dell’articolo) , l’album si apre con la suite A Nightmare to Remember.
http://www.youtube.com/watch?v=ADX9DdURn8o
Si tratta di un pezzo scritto da Petrucci in occasione di un ricordo d’infanzia, un incidente d’auto traumatico. Inizialmente chiamata Halloween per i toni cupi, la canzone si apre con il grand piano di Rudess sulle ottave basse, che si apre in un intro duro ed atmosferico in accordi che conferiscono un carattere effettivamente inquietante alla canzone. Tutto ciò porta a uno dei riff portanti della prima sezione della canzone, di chiara ispirazione Four Horsemen. Seguono un assolo e un repentino cambio di tempo che portano a riff roboanti accompagnati dalla doppia cassa, dalle rimembranze quasi Death Metal.
Un altro tema portante è inserito, con un altro cambio di tempo a dir poco esaltante, dopo un fill in 6/8 che culmina con il verso “No one screaming, no one cries”: e allora synth alla Octavarium e 4/4 portano ad un climax funzionale al senso della canzone e alla disperazione del momento. Tutti i temi della prima parte, ma specialmente quest’ultimo, risultano in ogni caso molto sensati melodicamente.
La seconda sezione della canzone è soft , riassumibile col titolo “Beautiful Agony”. Probabilmente si tratta di uno dei temi meglio riusciti alla band, melodicamente bellissimo, ben cantato, ascendente e catturante. Un assolo di Petrucci e il solito screaming di Rudess terminano la sezione, alla fine della quale possiamo riscontrare un’aneddotica curiosità nella canzone: pur avendo toni cupi e prestandosi dunque a spunti melodici importanti e, volendo, protoclassici, gli assoli di chitarra sono prevalentemente collocabili nell’ambito heavy metal più puro, fortemente influenzati dal blues. Il tema in synth si ripete e introduce la terza sezione, con il growl di Portnoy e un ritmo più costante: da qua si apre la solita “svisata” tipica dei Dream Theater, e cioè un lungo instrumental tecnico, all’insegna delle odd time signatures, che però, a differenza di alcuni discutibili precedenti (per esempio Endless Sacrifice o Dark Eternal Night), presenta per tutta la sua lunghezza parti intellegibili e soprattutto interessanti. La canzone si chiude con la ripresa dei temi iniziali, il che conferma il carattere di circolarità che spesso i Dream Theater donano alle loro opere. Si tratta in fin dei conti di una heavy suite magistrale, che a livello tecnico applicato alle melodie varrebbe da solo l’acquisto dell’album (anche perchè ne occupa in effetti un buon quinto con i suoi 16 minuti) e che farà felici gli amanti di generi più duri.
Il secondo brano è quello rilasciato come singolo e, come ormai è risaputo, è quello dalle caratteristiche più “popolari” e catturanti per i fan.
A Rite Of Passage è un brano dalle stesse caratteristiche heavy del precedente, non una suite ma comunque formato da “parti”, che rispetta però , per lo meno nella prima sezione, la caratteristica struttura strofa-bridge-ritornello, i quali sono, anche se su basi tecniche e varie, più lineari e facilmente ascoltabili.
La canzone si apre con una linea di basso con la solita caratteristica prog metal quasi dissonante tipica dei Dream Theater: presto Myung viene doppiato da Petrucci e si apre la canzone, con strofe quasi parlate e in tal senso davvero potenti e catchy (n.d.A.=il timbro di LaBrie mi è sempre piaciuto tantissimo, e qua mi fa morire) con chitarra in drop D, pronta a riff più pesanti. Il bridge, più melodico, anticipa il ritornello, armonizzato e meno elaborato, ma non per questo meno orecchiabile. La seconda sezione della canzone è invece ancora più heavy, ai limiti del thrash, con un assolo di chitarra davvero notevole in pieno stile Petrucci e fra i più difficili da riprodurre. Di nuovo svisata di Rudess, di nuovo bailamme progressive, di nuovo ritorno ai temi iniziali: così si conclude un pezzo dichiaratamente più lineare, ma non per questo meno orecchiabile: forse come processo creativo meno apprezzabile, ma anche gli alieni come i Dream Theater devono mangiare.
Il terzo brano, Wither, è il più corto e balladistico dell’album e, date le caratteristiche popolari, il secondo singolo. Scritto interamente da Petrucci, parla del “blocco dello scrittore” in termini drastici e maturi, in linea con il lyric writing dei Dream Theater.
Le strofe presentano un’accompagnamento con riff di chitarra clean condita dal chorus -anche qui, molto Metallica- mentre il ritornello è la classica esplosione, così come i bridge. L’assolo di chitarra, corto ma efficace, può ricordare a tratti un’ispirazione dal lavoro di Brian May in Bohemian Rhapsody .
E però. Anche se non c’è una lunga disquisizione tecnica da fare su questa canzone, appare superficiale liquidarla come troppo pop.
Talvolta è la melodia a caratterizzare un pezzo, e dunque, pur accettando il carattere commerciale di A Rite of Passage e di Wither, è profondamente ingiusto etichettare quest’ultimo pezzo come una pura discesa nel pop. Se il mondo ha imparato ad amare ballate come Nothing Else Matters o Through the Barricades, che certo non sono in 17/8 o non hanno migliaia di cluster di accordi con variazioni imponderabili, anche se chi apprezza il lato più “duro” e tecnico dei Dream Theater storce il naso, bisogna dare a questa canzone ciò che si merita. E cioè, un posto di riguardo fra le heavy ballad di sempre. Ci siamo passati con Forsaken nell’album precedente, ci torniamo ora: si tratta certo di pezzi facilmente fruibili, ma non per questo immediatamente condannabili.
Mandando un po’ a fanculo i formalismi e la retorica, sono canzoni belle e basta.
ALLEGO UN MASHUP MAGISTRALE
La quarta traccia dell’album è The Shattered Fortress.
Si tratta dell’ultima parte della cosiddetta XII Steps Suite iniziata con The Glass Prison, un insieme di suite con la tematica principale dell’alcolismo visto in tutte le sue sfaccettature da Portnoy. E ‘divisa in tre step, Restraint (X), Receive (XI) e Responsible (XII), e tratta l’argomento nella fase in cui il celebre batterista ne è uscito.
La canzone in sè è forse la meno incisiva dell’album, anche se compensa il tutto con la continuità che conserva con gli steps precedenti. Ci sono infatti numerose citazioni, nonchè una chiusura che, sempre a sottolineare l’amore per la ciclicità della band, riprende proprio The Glass Prison.
I temi fondamentali sono comunque riff heavy, strofe poderose, e intermezzi più melodici: forse il minore studio prettamente musicale a favore di quello formale e lirico rendono la canzone la meno apprezzabile dell’album, pur rimanendo su livelli alti.
La prossima song è invece la più struggente e commovente dell’album. The Best Of Times è stata scritta da Portnoy per il padre morente, davanti al quale è riuscito anche a suonarla. Morto di cancro poco tempo dopo la registrazione della canzone, questa non è mai stata performata live per le forti difficoltà emotive che il batterista avrebbe ammesso di aver affrontato; e probabilmente, per rispetto della forte autobiograficità del pezzo, non verrà eseguita neanche in futuro con il nuovo batterista Mike Mangini.
La canzone si apre con una intro soft, dove prima un violino e poi una chitarra acustica presentano i due temi musicali portanti: la sezione elettrica arriva successivamente con un riff veloce e interessantissimo di Petrucci che apre un’atmosfera fatta di accordi stranamente maggiori, in una progressione teoricamente più rock/pop, resa però coerente con il carattere meno heavy della canzone e impreziosita dalla tecnica dell’arpeggio staccato di Petrucci.
Le prime strofe e ritornelli lasciano spazio alla seconda grande sezione della canzone, la più commovente ed evocativa: se nella prima si riprendevano gli episodi passati di una vita di Portnoy figlio con il padre, la seconda, introdotta subito dopo il culmine con il tema “commovente”, presenta un arrangiamento più acustico (acustica, piano e archi su tutti) che introduce il tema “These are the best of times”, inizialmente suonato al violino nella intro, e ora cantato.
Finalmente tornano le chitarre elettriche, e la canzone arriva ad una fine: il climax di LaBrie, la cui parte difficilmente non porterà alle lacrime, finisce in un assolo altrettanto struggente.
Forse melodicamente uno dei migliori di Petrucci, così come, a livello di melodie, questa canzone appare veramente uscire da un cuore lacerato, emaciato e buttato via di un figlio che ha espresso in musica l’esplosivo scorrere di emozioni che gli provoca la perdita del padre.
Indubbiamente un pezzo che necessita di più di un ascolto, indubbiamente un pezzo che spingerà però poi a DESIDERARE più di un ascolto.
Eppure i Dream Theater hanno ancora qualcosa da dire nell’ultimo brano. Si tratta probabilmente della sublimazione dell’album: siamo davanti a 19 minuti di prog suite estrema, una di quelle canzoni che, al di là di favoritismi, difficilmente non vi lasceranno col cuore in gola nei momenti finali.
The Count Of Tuscany è uno di quei pezzi il cui solo titolo emoziona.
http://www.youtube.com/watch?v=E4yzYKIiV9Y
Da molti considerata la miglior canzone dei Dream Theater -forse non dai puristi amanti dei DT vecchio stile-, siamo in effetti di fronte a un capolavoro.
La canzone si apre con un intro di chitarra con il classico connubio elettrica clean+piezoelettrica (acustica) che realizza arpeggi in 3/8 sugli accordi evocativi di mr.Petrucci, pregni di corde vuote e risonanze. Entra poi in scena il primo assolo, perfetto in ogni suo ambito e, se ci fosse spazio a sufficienza, degno di un’analisi al millimetro.
La conclusione di tale parte, che introduce un tema portante della canzone, porta alla canzone vera e propria, nella prima, grande sezione di 11 minuti. Un altro 3/8 acustico e, in un climax efficace, l’entrata di tutta la band: la ritmica elettrica, le atmosfere di tastiera, la base di batteria e il supporto del basso portano a una sezione strumentale fra le più cristalline della storia dei Dream Theater e del progressive. Assistiamo a miriadi di cambi di tempo e temi ripetuti o variati, ma sempre melodicamente coerenti, intellegibili e molto tecnici; il carattere generale è comunque piuttosto cupo e di sapore antico, e il tema della canzone spiegherà il perchè.
E in un lampo -anche se sono passati già svariati minuti- si arriva all’introduzione della sezione cantata, con un riff in 9/8 con la tastiera che riprende un tema inquietante e dalle riminiscenze medievali -presto Rudess verrà doppiato da Petrucci (n.d.A.=Se siete giustamente profani e chiedeste a Petrucci di descrivervi il 9/8 anche solo per capire di che cazzo parla l’autore di questa recensione, lui lo descriverebbe di certo così: TATA TA TATATA TA )
Si apre allora un altro riff, veloce e mortale, e parte LaBrie a introdurre le lyrics di Petrucci.
Il tema della canzone è infatti un viaggio in Toscana dove il chitarrista è finito per imbattersi in uno strano e inquietante conte dal sapore esoterico e medioevale: il soggiorno nel suo castello ha così riempito di paure ed emozioni contrastanti Petrucci, da portarlo a scappare…e per fortuna a scriverci una canzone.
L’unico appunto fatto dalla critica riguarda la poca incisività delle liriche. In realtà si tratta di una storia narrata a due voci, alla stregua poi delle trovate aediche medievali a cui Petrucci si riferisce. Chi scrive, ma anche orde di musicisti e critici, trova invece il testo perfettamente coerente, in linea e formalmente speciale.
Tornando a noi, un’altra sezione strumentale, più corta e invero più confusa di quella iniziale chiude la prima parte di cantato di LaBrie, e la grande sezione si chiude con un assolo senza virtuosismi, ma dalla potenza espressiva e melodica rara (tant’è che è uno di quelli più sbagliati da Petrucci stesso, dal vivo).
La seconda sezione si apre con swell di volume della chitarra (effetto che ricorda un violino) e, dopo minuti di intro atmosferica, la sola chitarra acustica accompagna la voce di LaBrie che “tira le somme” della storia narrata. Il climax dell’arrangiamento e delle liriche è davvero suggestivo e degno di ascolto.
Così, la più bella storia firmata Dream Theater finisce in un assolo che riprende quello nei primissimi secondi della canzone e lo sublima, e in un coro da lacrime di gioia.
Alla fine dei conti l’album risulta forse una delle opere migliori della band, ma destabilizzante per i fan di vecchia data e per gli amanti dei Dream Theater più duri senza accenni di melodia. Le atmosfere sono molto presenti, anche su basi decisamente heavy, in tutto l’album, e il songwriting e la struttura ricalcano quelli che sono i Dream Theater moderni: anche l’album successivo, A Dramatic Turn of Events, avrà caratteristiche simili pur ricercando un’atmosfera più soft.
In definitiva, Black Clouds & Silver Linings ha le carte in regola per diventare uno dei manifesti della band e della nuova linea del progressive metal.
E allora, accettando che canzoni troppo complesse e prolisse possono annoiare alcuni ascoltatori, che l’eccessivo carattere heavy può disturbare altri, che le liriche possono non soddisfare tutti e che i Dream Theater in sè possono non veicolare emozioni ad altri, la morale è sempre la stessa…
I Dream Theater sono i Dream Theater.
Buon ascolto.
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