Un grande imprenditore, un uomo di spettacolo, un donnaiolo. Grande lungimiranza quando si tratta di denaro e senso degli affari non comune, decide di lanciarsi nella corsa politica e, a sorpresa, vince. Silvio, is that you? No, parliamo del neopresidente americano Donald Trump, fresco di elezione alla carica politica numero 1 del mondo.
L’attesa per il verdetto ha lasciato il posto a un’opinione pubblica letteralmente spaccata a metà: da una parte chi plaude al cambiamento e al coraggio che gli americani avrebbero avuto, nel dare fiducia a una figura così controversa, dall’altra (forse la maggioranza nel resto del mondo) chi si dispera immaginando un prossimo futuro a tinte apocalittiche.
Donald Trump ha dimostrato, in questi anni, di avere interessi un po’ dappertutto, incluso lo sport. D’altronde, in America è piuttosto impossibile escludere lo sport dalla sfera d’influenza di qualsivoglia vip o presunto tale, per cui anche il nome di Trump è stato accostato, di volta in volta, a questa o quella squadra o competizione. L’episodio simbolo del rapporto tra l’uomo nuovo della politica a stelle e strisce e il mondo dello sport risale al 1983, quando la sua carriera di palazzinaro era in piena ascesa.
Per sfruttare il ritorno di immagine e incamerare lauti guadagni, decise di diventare presidente dei New Jersey Generals, una squadra di football che militava nella USFL, lega professionistica alternativa alla più blasonata NFL. L’obiettivo era quello di rilanciare questo piccolo campionato con ogni mezzo, lecito e meno: Trump fece man bassa di campioni e convinse gli altri club a cambiare il calendario delle partite ponendosi in diretta concorrenza con la NFL.
Nelle sue intenzioni, i diritti tv avrebbero portato a guadagni record, ma la realtà fu un clamoroso flop che portò addirittura, l’anno dopo, al fallimento e alla chiusura della USFL. Ben lontano dal volersi arrendere, Trump trascinò la NFL in tribunale accusandola di monopolio scorretto, purtroppo affidando una causa con in ballo una richiesta di risarcimento da un miliardo e 300 milioni di dollari a un avvocato piuttosto inesperto.
Il verdetto fu sorprendentemente favorevole alla USFL, ma il risarcimento si trasformò in un simbolico dollaro, per cui diventò impensabile ricominciare. Trump e il suo entourage si coprirono di ridicolo e questo aneddoto è risultato piuttosto ricorrente nelle argomentazioni della campagna elettorale avversaria.
Non pago, Trump provò anche ad acquistare i Buffalo Bills (squadra diventata famosa per aver ospitato O.J. Simpson tra le sue fila) quando questi ultimi stavano attraversando un momento difficile, ma fortunatamente per i Bills alla fine la spuntò Terrence Pegula, proprietario anche dei Sabres, la locale squadra di hockey.
La voglia di lanciarsi in imprese forse al di sopra delle sue competenze deve aver preso il sopravvento anche quando dichiarò di essere desideroso di comprare la sua squadra di baseball del cuore, i New York Yankees. Il club, però, oltre ad essere il più blasonato della MLB, è anche un marchio sportivo famoso in tutto il mondo e straordinariamente ricco e redditizio. La crisi non lo ha mai nemmeno sfiorato e questo allontana fantasmi di incaute acquisizioni.
Per quanto riguarda il calcio, da buon americano Trump è abbastanza tiepido. Alcune voci avevano parlato di un suo interessamento ad acquistare la squadra argentina del San Lorenzo (il cui primo e più illustre tifoso è Papa Francesco), ma è stato proprio il tycoon in persona a smentire con un tweet.
Il vero capolavoro sportivo di Donald Trump risale però al 2007 quando imperversò “a sorpresa” sul ring della 23esima Wrestlemania, che quell’anno si teneva al Trump Plaza Hotel & Casino, ad Atlantic City. Durante il match tra Umaga e Bobby Lashley, valido appunto per la “Battle Of Billionaires”, Trump sfidò il magnate e boss della WWE Vince McMahon, vincendo. La “punizione” inflitta poi a McMahon fu la rasatura dei capelli in diretta, di cui Trump si incaricò personalmente, previa stipulazione del match (Hair vs Hair).
Più recentemente, in polemica con le sue dichiarazioni razziste, anche il mondo del golf professionistico gli ha voltato le spalle.
Prima la Cadillac ha ritirato la sponsorship al Campionato del Mondo che dal 1962 si svolge nel resort di Doral (Florida), di proprietà di Trump. Poi il PGA (il tour professionistico americano) ha deciso di cambiare sede, spostandosi in Messico a partire dal 2017. Proprio quel Messico determinante nella campagna elettorale, tra muri da erigere ed immigrati da respingere.
Insomma, nello sport come nella vita, un personaggio sopra le righe e decisamente ingombrante. Uno che dovunque abbia avuto modo di allungare le mani ha lasciato dietro di se una scia di debiti, fallimenti, malumori, cause legali ed esorbitanti spese.
Un uomo “senza mezzi termini”, nel bene e forse ancora di più nel male, che non ha mai attirato le simpatie del mondo sportivo americano, dedito come da tradizione a veicolare messaggi positivi. Non è un caso che l’unico sportivo “di peso” ad aver esternato pubblica simpatia per Trump sia stato Mike Tyson, un altro che ha fatto delle controversie uno stile di vita.
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