Proviamo per un minuto ad immaginare un mondo perfetto, immerso nella musica.
Fonoteche in ogni quartire, concerti gratuiti in ogni piazza, ogni famiglia avrebbe una raccolta di vinili spaziante dal jazz al country.
Tutti i talenti sarebbero valorizzati e riconosciuti unanimamente. Grazie all’eterna atmosfera “da locale neyorkese all’orario di chiusura” il crimine decrescerebbe in maniera sostanziale e tutti andrebbero in giro saltellando swingosi a tempo di musica. La diminuzione dello stress causerebbe un miglioramento delle condizioni di salute generali, insieme con un allungamento della vita media.
Tornerebbe di moda Apollo, e in suo onore ogni 9 aprile si brucierebbe in pubblica piazza un pupazzo capellone nella festa dei “Musicalia”.
Dopo qualche anno, però, la vita degli artisti inizierebbe ad essere logorante, vessati da richieste, rispettose ma pressanti, di nuovo materiale; massacrati dal continuo touring, che non lascerebbe nemmeno un minuto per respirare.
Sfortunatamente questo mondo non esiste: ciò proprio grazie alla sacrosanta brutta musica che, come un cavaliere oscuro, attira l’odio generale.
Un generico artista pop o alla peggio “indie” ,calamitando l’attenzione della maggioranza della popolazione con senso dell’udito, sfoltisce (senza mai eliminarlo) il bacino di utenza di musicisti veri, i quali usufruiscono quindi di un pubblico fedele e rispettoso, limitato ma sufficiente al sostentamento ed ad una vita agiata.
Per quanto gli riguarda l’artista Pop, sacrificando parte della sua vita a touring selvaggio, inseguito da ragazzine sbavanti acido borico, si merita il suo prepensionamento dorato, degno del celebre papero di Glasgow.
Questo patto sembra collegato al concetto stesso di industria discografica, che diventa così capace di divorare la maggior parte degli introiti possibili, per lasciare poi che le sostanziose briciole sostentino un sottobosco di artisti, che rimarrebbero stritolati, se si mostrassero su un red carpet.
Proviamo a prendere degli esempi pratici per renderci conto del processo:
Genesis, album magnifici, fama crescente. Tutto sembra filare per il verso giusto fino a quando l’eccessiva esposizione mediatica spezza (non a caso durante un tour negli States) il sottile equilibrio tra l’ego di Gabriel e il resto del gruppo, portando alla celebre rottura del 1975.
Ma con un faccino così, chi avrebbe il coraggio di dirgli qualcosa?
Fine molto diversa hanno subito altri gruppi, non di nicchia, ma sicuramente meno blasonati.
Fra i tantissimi gli Hawkwind, gruppo space rock/hard prog ,(del quale ha fatto parte anche il celebre Lemmy) hanno proseguito la propria carriera con ben pochi scossoni fino ai giorni nostri,fino ad arrivare al leggendario Robert Wyatt, che da bravo poeta post industriale dilatta da 40 anni un ristretto pubblico di appassionati con la sua musica.
Cercando di uscire dal ristretto ambito del prog (non prima di aver citato i Pooh) si potrebbero enumerare un’infinità di jazzisti e gruppi fusion dal simile destino: fra i tanti i Casiopea, con 39 album all’attivo, il caro vecchio Chick Corea, o perfino un Bollani.
Al contrario, l’artista pop contemporaneo tende ad avere una carriera folgorante, che prontamente si spegne (non prima di aver fruttato qualche milioncino). Questo fenomeno sembra essersi accentuato col tempo, dato che molti, provenienti dagli anni ’70 e ’80, si sono potuti permettere carriere più lunghe e con punte di ars non indifferenti, nonostante un successo sconfinato, seppur decisamente minore di quello di un generico rapper nero.
Ricapitolando, la maggior parte del pubblico viene calamitato da una generica Rihanna, la restante parte si fionda sui Radiohead, chi rimane compra vinili di Lou Reed, chi sopravvive riprende i mano roba dei Rush.
Sembra un’ovvietà, il processo, ma la musica “di merda” permette recensioni acide, grassoni che si sentono geni incompresi, e darkettoni che innegiano al diaulo senza remore alcuna, ovvero ciò che a sua volta nutre il 60 % dell’internet che conta.
Tutti insieme, grazie musica di merda!
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