Ciao amici del uebb km state???1!1!1
Oggi vi parlerò ancora dei ’90 (oh, è colpa vostra che continuate a leggere così numerosi sti articoli del menga se non la smetto), presentendovi una storia che fece scalpore ai tempi e che resta più o meno viva nell’immaginario anche oggi, forse più dell’altro fenomeno culturale riguardante la Scozia degli anni ’90, cioè Braveheart del simpatico antisemita Gibson. Il motivo? Forse perché la mancanza di ideali e il nichilismo denunciati prima da Irvine Welsh (libro, ’93) e poi da Danny Boyle (film, ’96) non sono solo tipici degli anni ’90, ma pure prepotentemente attuali. Anche se abbbiamo sostituito l’eroina con Facebook.
Sì, lo so, aprire l’articolo con questo non brilla per originalità. Ma del resto non è colpa mia se il messaggio di Trainspotting ti viene direttamente sparato (in vena?) nel primo minuto nel film, lasciando gli altri 100 e rotti minuti a mettere in campo una collezione di personaggi bizzarri e di scene paradossali. E un certo numero di pere. Sarebbe forzato definire i ’90 il decennio dell’eroina: la droga come evasione dalla realtà è roba ben più vecchia. I ’90 hanno però segnato la fine dell’ideologia, il tramonto del mito del posto fisso (anche se alcuni ce ne hanno messo un po’ ad accorgersene) e in generale il fascino per la degradazione. Non sono pochi i film sulla droga, dei ’90 e non solo, ma difficilmente riescono a non cadere nel moralismo o nelle facili metafore (vedi sotto).
Trainspotting, libro e film, evita quanto più possibile di suggerire dei giudizi morali (anche se gli echi anti-patriottici e anti-thatcheriani sono inevitabili): si tratta perlopiù della classica storia di una compagnia se non addirittura di un percorso di formazione, dove però i giovanotti tra le altre cose non mancano di bucarsi allegramente e cadere in degradazioni fisico/morali sempre peggiori (ecco, sì, la famosa scena dell’immersione nel cesso in effetti è una metafora del cazzo).
Come ho scritto nella recensione a Skagboys, libro appena uscito che è il prequel di Trainspotting, in Welsh non c’è condanna né esaltazione dell’eroina, semmai una critica al consumismo: Renton e soci si fanno di roba semplicemente perché è a loro disposizione, come le sigarette, l’alcool, i rotocalchi, le suolette delle scarpe o tutte quelle di cose di cui sentiamo una necessità illusoria. I ragazzacci di Leith (quartiere portuale, periferico e degradato della patinata Edinburgo) cadono nella tossicodipendenza semplicemente perché non trovano altre cose per riempire la loro vita. E’ poi significativo che quello che è in un certo senso il villain, l’indimenticabile Begbie, non si faccia mai di ero, bensì di “persone”.
Il Trainspotting libro è un pugno nello stomaco (o almeno, lo era quando è uscito): ricco di sfumature sui vari personaggi che si alternano a narrare in prima persona (Sick Boy ad esempio, che nel film è poco più di una macchietta del playboy, nel libro è un vero pezzo di merda), ci restituisce le cronache di una gioventù che non è più solo bruciata ma, se mi perdonate il cliché, sembra dissolta come la roba quando viene “cucinata”. Il sornione ma sveglio Renton si rende benissimo conto di stare sprofondando sempre di più in un mare di merda, ma non trova motivazioni necessarie a prendersi lo sbattimento per uscirne. Nel film non si parla dei ricordi del suo fratellino handicappato o del fratello morto da militare, di cui Rents si tromba la moglie incinta al funerale.
La versione cinematografica del resto, più che censurare le scene più cupe (come l’allucinante parentesi, slegata dalla storia principale, in cui un sieropositivo si vendica nella maniera più crudele possibile del tizio che ha infettato la sua ragazza e quindi lui). si sforza di trasformare i vari tasselli volutamente incongruenti in una bozza di schema narrativo, che però farebbe alzare le sopracciglia a Greimas. Sì, ok, i ragazzi si disintossicano un paio di volte per poi ricascarci puntualmente, finiscono in prigione o all’ospedale, provano a “scegliere la vita” a Londra, senza riuscire però a liberarsi dal mare di merda che li continua ineluttabilmente a circondare, e l’happy ending in qualche modo arriva pure. C’è pure una parentesi in qualche modo romantica, paradossale e particolarmente dolce per la sua assurdità, che assegna a Renton la parte di adorabile sfigato che nel libro proprio non aveva.
E’ tuttavia ovvio che il film di Trainspotting, come del resto tutti i libri di Welsh, non deve il suo successo alla trama o alle sue interpretazioni, quanto al modo in cui concatena tra loro scene e personaggi memorabili. Come non amare Spud, che nel libro è lo sballone dal cuore d’oro costretto a navigare in mezzo agli stronzi, reso celebre nel film dalle scene del colloquio di lavoro e del drammatico risveglio post-etilico a casa della sua donna. Come non rimanere scossi dalla degradazione del belloccio Tommy che cade nel baratro della dipendenza. Come non adorare a modo suo quel figlio di puttana di Begbie il cui unico scopo nella vita sembra quello di arrecare sofferenza agli altri, ma almeno lo fa con un certo stile.
Insomma, dalla penna vulcanica e avvelenata di Welsh sono usciti personaggi “estremi” ma credibili nella loro profonda “umanità”, nel senso più pessimistico del termine, e il film ha reso più o meno giustizia a tutti loro. Di Trainspotting e dei libri di Welsh in generale oggi ci restano il gusto per la degradazione e il fascino inquietante di vedere in quei personaggi eccessivi e brutali qualcosa di noi stessi. Trainspotting non ci vuole insegnare nulla di particolare e più che farci riflettere ci intrattiene. Resta però il fatto che quanto senti la voce disperata di Renton che ti rivela il suo senso perverso della vita nel finale, e poi attaccano di nuovo le note di Born Slippy, il magone ti scatta automatico.
Brotip: se vi è venuta voglia di leggervi/rileggervi il libro o vedervi/rivedervi il film, fatelo in lingua originale pls.
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