Il referendum svoltosi in Turchia lo scorso 16 aprile ha sancito la vittoria, seppur risicata, del “sì” alla riforma costituzionale proposta dal presidente della Repubblica. Con un’affluenza record all’86%, il super presidenzialismo tanto voluto da Erdogan ha vinto con il 51,3% dei voti favorevoli, contro il 48,7% dei “no”.
I giorni seguenti, però, portano solo tensioni. Dopo il ricorso delle opposizioni per presunti brogli e la conseguente risposta della Commissione Elettorale per cui “tutto è in regola”, è intervenuta l’OSCE, secondo cui nel processo elettorale non sono stati rispettati gli “standard internazionali”.
Per gli osservatori internazionali le operazioni di voto sono state poco trasparenti: alcuni elettori si sono visti cambiare la sede del seggio all’ultimo secondo e in alcune città si sono registrate violenze.
L’appiglio più grande a cui si sono ancorate le opposizioni è quello della presunta invalidità delle schede non timbrate, per cui il conteggio dei voti si sarebbe dovuto fermare al 60% delle schede. Infatti, le schede elettorali non dovrebbero essere valide se sul retro non c’è il timbro di convalida del seggio, ma la Commissione Elettorale Turca ha detto che i risultati definitivi saranno resi noti tra circa 10 giorni e che, comunque, le schede senza timbro sono valide. Perciò, ha ufficialmente proclamato la vittoria dei “sì”.
Cosa prevede la riforma?
La riforma è composta da 18 articoli che modificano profondamente l’assetto costituzionale turco, il funzionamento del governo e del Parlamento e l’indipendenza degli organi giudiziari che andranno sotto un controllo politico. Ci sarà un enorme aumento dei poteri del presidente della Repubblica a scapito di quelli del parlamento:
La nuova costituzione dovrebbe entrare in vigore nel 2019: si azzererà il primo mandato del presidente Erdogan che quindi potrà restare in carica fino al 2029.
Un paese profondamente spaccato
Già in campagna elettorale, i toni erano stati molto accesi. Erdogan porta avanti l’istanza del super presidenzialismo da anni e negli ultimi tempi aveva sottolineato più volte la necessità di tale riforma per tenere sotto controllo i terroristi curdi e le cospirazioni imperialiste.
Mentre le opposizioni, con i repubblicani del Chp e i filo curdi dell’Hdp, hanno incentrato la loro campagna sul rischio di dittatura, Erdogan ha concentrato i suoi sforzi sulla promessa di un ritrovamento della stabilità che la Turchia non vede almeno dal 22 luglio scorso, dopo il fallito golpe.
Promessa che, dati i risultati del referendum, sembra sfumare: gli scontri, le proteste e le accuse di brogli sono iniziate già prima della chiusura dei seggi. Le tensioni interne, l’invasione dei profughi siriani e la continua lotta contro il terrorismo curdo non aiutano certo a mantenere unito il paese.
La Turchia, perciò, appare profondamente spaccata e questo emerge anche dai dati referendari: gli elettori contrari alla riforma vincono nelle grandi città: Ankara, Istanbul e Smirne. I “sì”, invece, prevalgono nei paesi e, soprattutto, tra i Turchi residenti nelle nazioni Europee.
Le divisioni sembrano talmente profonde che il presidente si è visto costretto a prolungare lo stato di emergenza e non è riuscito ad evitare i vari scontri post elettorali. Alcuni manifestanti sono scesi in piazza ad Istanbul per protestare contro il sospetto svolgimento delle operazioni di voto e si sono scontrati con coloro che festeggiavano la vittoria.
Erdogan, dunque, esce sì vincitore da questa partita, ma di poco. Il che lo costringe a fare i conti con nuove sfide: intanto, ha annunciato l’intenzione di indire una nuova consultazione popolare per reintrodurre la pena di morte. Altre conseguenze importanti ci saranno, sicuramente, sul negoziato tra Unione Europea e Turchia per la potenziale entrata di quest’ultima nell’Unione.
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