Pochi giorni fa è giunto in Italia il tour di supporto al recentissimo album di inediti dei californiani Red Hot Chili Peppers, “The Gateway”, con il quale hanno illuminato le ormai fredde e piovose serate autunnali quasi procrastinando la fine dell’estate.
L’attualità ci parla di come accaparrarsi i pochi preziosi biglietti per i concerti degli artisti più importanti sulla scena sia ormai una vera e propria impresa: i dati mostrano come in poche ore si riescano a registrare sold-out con vendite da record; i Red Hot Chili Peppers hanno dovuto addirittura raddoppiare le date in corso per accontentare la grandissima richiesta. Così come il fenomeno del “tutto esaurito in cinque minuti” dei Red Hot Chili Peppers mesi or sono aveva scatenato incredulità e malcontento generale nei confronti del colosso Ticketone – sistema online che gestisce eventi e vendita dei biglietti – in pochi giorni durante questa settimana si è ripetuto il misfatto nella gestione dei concerti di Coldplay e Depeche Mode. Ma questa volta si è intervenuti per vie legali: il Codacons (Coordinamento delle Associazioni per la Difesa dell’Ambiente e dei Diritti degli Utenti e dei Consumatori) ha inviato un esposto alla procura della Repubblica e la Siae (Società Italiana degli Autori ed Editori) ha presentato da pochi giorni un ricorso d’urgenza al Tribunale Civile per tutelare sia i diritti dei propri associati che quelli dei consumatori.
Per la data di Bologna – la prima delle tre nella Penisola – si è scelta una delle migliori location possibili: l’imponente Unipol Arena, struttura che ospita concerti ed eventi sportivi di valenza mondiale e può contenere un massimo di 18.000 persone, abbastanza decentrata perché situata nella zona industriale ma ben collegata da navette. Per questo genere di eventi l’organizzazione dovrebbe essere impeccabile, purtroppo però i trasporti sembrano essere nel panico generale (al numero ingente di persone non corrispondono in proporzione gli autobus) e soprattutto – fatto gravissimo – termina lo spazio del guardaroba all’entrata sin da metà pomeriggio. Nessuno si preoccupa di informare e avvertire del problema il pubblico (magari scrivendo due righe sulla pagina dell’evento di Facebook, o sul sito dell’Arena), il quale è costretto a portare di conseguenza all’interno dello stadio borse, zaini e valigie (contro ogni norma di sicurezza).
Verso le 9, dopo aver superato la schiera di bagarini che rivendono i biglietti a cinque volte tanto il normale e legale prezzo di vendita, dopo aver superato il triplo controllo (con tanto di cani antidroga) e aver atteso pazientemente in fila in uno dei vari ingressi, il pubblico è quasi interamente all’interno del palazzetto. Il tempo di intonare qualche coro, guardarsi intorno per osservare gli spettatori in stato di febbrile eccitazione che si spengono le luci. Salgono in ordine Chad, Flea e il giovane Josh: inizia una lunga Jam Session con il quale il trio strumentale si presenta, musicalmente parlando. L’acustica dell’Arena è impeccabile, il volume decisamente alto e gli strumenti sono nitidi, limpidi e distinguibili (non si verifica l’effetto “polverone sonoro”, spesso una minaccia dei live), come giusto che sia per un concerto di questo calibro. Flea pesta il basso come è solito fare, lui che è una delle più autentiche rockstar contemporanee, lui ed i suoi pantaloni variopinti, i suoi capelli (multi)colore e la sua attitudine folle che lo fa saltare ovunque sul palco, fare piroette, suonare in ginocchio e sopra le casse. Chad (salutato come “Will Ferrell” di cui è chiaramente il sosia) è come sempre precisissimo nel tenere il tempo e scandire le ritmiche, Josh è totalmente a suo agio sul palco e dona il giusto colore ai brani: è già perfettamente parte integrante della band.
Tocca al frontman Antony Kiedis salutare gli spettatori già festanti, che perdono la testa con il brano di apertura: incredibile ma vero, la leggendaria “Can’t stop”. Solitamente il primo brano scelto dagli artisti in sede live è tratto dall’ultimo album – o perlomeno non uno dei propri brani più significativi ed importanti – ma i quattro californiani hanno ormai ampiamente dimostrato di non voler ragionare secondo determinati canoni artistici. Altro esempio di imprevedibilità della band è la costruzione della scaletta dei brani da eseguire, sempre differente a ogni spettacolo: questo può sorprendere quando vengono riproposte rarità e può deludere a causa dell’assenza spesso di veri “pezzi da novanta” (In particolare non troveranno spazio in questa data “Otherside” e “Snow”). Antony e soci attingono però dalla varietà del loro (enorme) repertorio e decidono di suonare classici recenti, come “Dani California”, classici storici e strappalacrime come “Scar tissue” oltre a decidere di raccontare ancora una volta del loro amatissimo stato di provenienza con “Californication”.
Del nuovo album vengono riproposti una manciata di brani da classifica, come i singoli “Dark necessities” e “Ok robot”, che rendono molto dal vivo e coinvolgono il pubblico (magari la moltitudine di under 14 li ha scoperti proprio grazie al nuovo lavoro discografico…). Nei pezzi più marcatamente pop e ballabili è bellissima la scenografia: una molteplicità di tubi luminosi appesi sopra il palco “danzano” a ritmo di musica e cambiano colore, mentre i tre maxischermi sul retro mostrano immagini psichedeliche che si mescolano a quelle dei musicisti intenti a suonare. Rarissime le pause in cui vedremo la band prendere fiato, molti invece gli intermezzi strumentali e le cover proposte: Flea si rende protagonista di una scatenata “Nervous breakdown” dei Black Flag, mentre un Josh versione solista incanta con la cover di “Spectre” dei Radiohead e rende un’ulteriore omaggio al compianto Bowie con “Five Years”. Il chitarrista è emozionato ed emozionante a tratti, ma fallisce in alcuni frangenti il difficile compito di non far rimpiangere il leggendario John Frusciante. Se si perdonano il differente “tocco” ed i controcanti non proprio angelici, non si perdonano gli intro e gli assoli dei brani storici, che vengono semplicemente reinterpretati male.
Per gli affezionati ecco una perla chiamata “Soul to squeeze”, preceduta da una buona esecuzione del must “Suck my kiss” seguito da “By the way”, il classico pezzo che non si può non cantare a squaciagola. Come chiusura l’inno al funk “Give it away” che dal vivo rende più che mai e Flea, con un paio di slappate di basso distorte, rischia di far crollare la struttura che lo sorregge e fa tremare pericolosamente il terreno. Tony ringrazia cordialmente e senza tanti complimenti abbandona il palco, il resto della truppa rimane a salutare il pubblico festante, vengono lanciati plettri e bacchette.
La location è adeguata, la scaletta dovrebbe aver accontentato tutti (nei limiti del possibile), l’ acustica è eccellente e i livelli audio sono altissimi: sotto il mero punto di vista del livello tecnico tutto è stato impeccabile. Ciò che conta realmente però è che sul palco suonavano indemoniati i Red Hot Chili Peppers: il reale, quanto magico, parametro aggiunto.
Se la mia vita fosse perfetta mi trovereste sempre sotto ad un palco. Scrivo di musica, e ne ascolto tantissima. Studio a Scienze Politiche perché mi piacerebbe conoscere e saper affrontare qualsiasi argomento possibile. O forse perché ho paura ad addentrarmi troppo nei contorti meandri di materie scientifiche. Suono il basso, in un gruppo metal di cattivi ragazzi, di quelli che fanno riti satanici quando c'è luna piena. Amo l'arte, in tutte le sue forme. Anche la preparazione di una carbonara è arte. Vado fuori di testa ad ogni rappresentazione della Tosca. Ah, il tiro "Alla Del Piero" è arte.
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