Tra tutte le battaglie mai disputate quelle di cui si possa dire che hanno cambiato la storia di un paese sono poche. Tra le più famose si annoverano senza dubbio la Battaglia di Stalingrado (17 luglio 1942 – 2 febbraio 1943, segnò la fine dell’avanzata nazista in Russia), Waterloo (con la sconfitta di Napoleone), la Battaglia di Hastings (14 ottobre 1066, sancì l’ascesa di Guglielmo il Conquistatore a sovrano d’Inghilterra), per l’Italia forse la battaglia di Legnano (29 maggio 1176, quando la lega dei Comuni piegò l’esercito di Federico Barbarossa), per l’antichità sicuramente Zama (202 a.C., quando Annibale, dopo averli più volte battuti, venne infine sconfitto dai Romani) e Salamina (480 a.C., vide la flotta greca annientare quella persiana).
A queste va aggiunta, per innegabile merito, la Battaglia di Sekigahara, avvenuta il 21 ottobre 1600, la quale portò alla creazione dello Shogunato Tokugawa in Giappone, e con esso a un periodo di pace e stabilità che durò quasi tre secoli.
Il sovrano assoluto, nel Giappone dell’epoca, era l’Imperatore, ma questi, alla pari dell’intera famiglia imperiale, era in realtà dotato di ben poco potere: non possedendo terre, gli imperatori erano di fatto sprovvisti di rendite e di supporto militare, dipendendo da quanto i nobili maggiori comandanti militari dell’Impero, di volta in volta gli riconoscevano.
Quasi vent’anni prima dell’ascesa di Tokugawa era in carica un altro Shogun, Ashikaga Yoshiaki, il quale si trovava tuttavia, nel 1573, saldamente sotto il controllo di un famoso generale, Oda Nobunaga. Quando Ashikaga Yoshiaki si ribellò, fu sconfitto ed esiliato, e così si concluse il suo shogunato, dando vita ad un periodo di vacanza del potere ufficiale.
Pur privo di una carica formale, Oda Nobunaga regnò incontrastato per nove anni, ma nel 1582 uno dei suoi vassalli, Akechi Mitsuhide, lo tradì, e Nobunaga, assediato a Kyoto, si suicidò mediante seppuku. Toyotomi Hideyoshi, un altro vassallo, sopraggiunto troppo tardi a Kyoto per essergli d’aiuto, sconfisse Akechi Mitsuhide e assunse il controllo del Giappone. Essendo tuttavia di umili origini, non poté mai divenire Shogun, e si accontentò del titolo di onorifico di Taikō.
Le sue guerre in Corea, entrambe fallite, indebolirono il giovane clan Toyotomi, e alla sua morte, avvenuta all’epoca della seconda invasione, sorsero due fazioni: una guidata da Ishida Mitsunari e l’altra da Tokugawa Ieyasu. Il reggente incaricato di tenere il governo fino alla maggiore età di Hideyori, figlio di Toyotomi Hideyoshi, Maeda Toshiie, morì, e si sparse la voce che Tokugawa Ieyasu volesse impadronirsi del potere.
Il Consiglio dei Reggenti, che aveva sostituito Maeda Toshiie, si divise tra i sostenitori di Tokugawa Ieyasu e quelli di Ishida Mitsunari. Ci fu, forse, un tentativo di assassinare Tokugawa – o quantomeno, Tokugawa usò questa scusa per costringere alcuni dei presunti cospiratori a sottomettersi a lui. In quel momento era il più potente tra i reggenti, tanto per anzianità quanto per fama e capacità belliche.
Quando un altro membro del Consiglio, Uesugi Kagekatsu, lo sfidò apertamente, Tokugawa lo convocò a Kyoto chiedendogli di spiegarsi davanti all’Imperatore, ma si vide a sua volta contestate le violazioni alle regole che Hideyoshi aveva imposto ai reggenti – in una società formale come quella Giapponese, in cui l’apparenza è tutto, sentirsi accusare di aver infranto regole che invece si era accuratamente premurato di piegare senza violarle fece infuriare Tokugawa, il quale si mise alla testa del suo esercito e marciò contro Uesugi.
Ishida, anch’egli facente parte del Consiglio, radunò a sua volta un esercito per contrapporglisi. Per ottenere il supporto dei lealisti Toyotomi, Ishida dichiarò di star supportando l’erede del Taikō contro il tentativo di usurparne il potere. Un suo alleato, Mōri Terumoto, si era impadronito del castello di Osaka, che aveva fama di essere imprendibile e permetteva inoltre di controllare facilmente Kyoto, capitale dell’Impero e sede dell’Imperatore, nonché città in cui si trovava Toyotomi Hideyori, erede ufficiale del Taikō. Ishida poteva dunque controllare potenzialmente tutte le fonti di legittimazione del potere in Giappone. Tra lui e questo risultato si frapponeva il castello di Fushimi, situato tra Osaka e Kyoto, che era difeso da Torii Mototada, alleato di Tokugawa.
Tokugawa aveva di fronte a sé, invece, sulla strada per Kyoto, il castello di Gifu. Nei dieci giorni che ci mise Ishida a conquistare Fushimi, Tokugawa espugnò Gifu. Essendo partita da Edo – che all’epoca era ancora un piccolo villaggio, lungi da diventare l’immensa Tokyo che è oggigiorno –, la sua armata venne chiamata l’Armata dell’Est, mentre l’esercito di Ishida, che era stanziato nel Kansai ed era supportato da molti clan delle regioni occidentali del paese, venne chiamato l’Armata dell’Ovest.
Non disponendo più del castello di Gifu, da cui passavano le strade che dall’est del paese raggiungevano il Kansai, Ishida fu costretto a ritirarsi in cerca di una posizione facilmente difendibile da cui affrontare l’esercito di Tokugawa, nonostante il vantaggio numerico di cui disponeva: centoventimila uomini (di cui tuttavia solo ottantamila presero parte effettiva allo scontro) a fronte dei settantacinquemila del rivale. Questo probabilmente per via del fatto che le riserve di polvere da sparo dell’Armata dell’Ovest erano bagnate a causa della pioggia dei giorni precedenti.
Ishida scelse quindi la piana di Sekigahara, un luogo in cui il suo esercito aveva i fianchi protetti da due corsi d’acqua e si trovava in posizione rialzata, il che gli avrebbe conferito un notevole vantaggio tattico.
La mattina del 21 ottobre 1600 vi era una fitta nebbia, e l’avanguardia dell’armata dell’Est si trovò improvvisamente di fronte ad alcuni battaglioni di Ishida. Entrambi gli eserciti si ritirarono senza combattere, ritenendo sufficiente sapere le posizioni del nemico. Quando il vento disperse la nebbia, dato che Ishida non si era mosso, Tokugawa decise di cominciare l’attacco. Disponeva di molte armi da fuoco in più rispetto al suo avversario, e di truppe ben addestrate ad usarle. Inoltre le sue riserve di polvere pirica erano integre. Per finire, Tokugawa aveva preso contatti con diversi daimyo (capi feudali) fedeli a Ishida promettendogli lauti compensi se avessero cambiato bandiera durante lo scontro, e contava sul fatto che qualcuno di questi avrebbe accettato.
Adoperando le truppe dei suoi alleati in prima fila e tenendo le proprie come riserva, Tokugawa concentrò l’offensiva sul fianco destro del nemico, lanciando l’assalto con l’avanguardia, supportata dal proprio fianco sinistro. Al contempo, impiegò il segmento centrale e quello destro del suo esercito contro il centro e la sinistra dell’avversario, per tenere impegnata l’Armata dell’Ovest mentre l’ala sinistra avanzava.
Ishida rispose con una manovra di aggiramento guidata da Ōtani Yoshitsugu, provando a schiacciare l’avanguardia di Tokugawa, che era avanzata a fondo nelle linee nemiche. Tra le truppe incaricate di quest’operazione vi erano quelle di Kobayakawa Hideaki, uno dei daimyo che erano stati oggetto delle avances di Tokugawa.
Pur avendo in segreto accettato di tradire Ishida, Kobayakawa stava in realtà adottando sul campo una strategia attendista, sperando di capire chi avrebbe prevalso prima di schierarsi. Tokugawa non era tuttavia disposto a tollerare un simile atteggiamento, dipendendo i suoi piani da una chiara comprensione di chi l’avrebbe aiutato e chi era invece da considerarsi suo nemico, pertanto ordinò alle sue batterie di armi da fuoco di sparare contro le posizioni di Kobayakawa, così da costringerlo a prendere una decisione – e questi scelse Tokugawa.
Il suo intervento al fianco dell’Armata dell’Est si rivelò in un primo momento inefficace. Pur avendo attaccato alle spalle i suoi ex-alleati impegnati ad aggirare l’avanguardia e il fianco sinistro di Tokugawa, si vide respinto con gravi perdite da Ōtani. Questi si trovava però stretto tra l’esercito di Tokugawa e le truppe di Kobayakawa, e fu costretto quindi a dare ordine alle sue truppe di ritirarsi, per poi commettere seppuku. Alla vista del cambio di fronte di Kobayakawa e della ritirata di Ōtani, altri daimyo dell’Ovest passarono dal lato di Tokugawa, attaccando le truppe di Ishida o abbandonando lo scontro.
La battaglia di Sekigahara era vinta.
Il fianco destro dell’Ovest era in pezzi, e il resto dell’armata stava venendo respinto. L’unica speranza di Ishida avrebbero potuto essere le truppe di riserva stanziate sul Monte Nangu, sovrastante la piana. L’avanguardia era retta da Kikkawa Hiroie, mentre il comando centrale era tenuto da Mori Hidemoto. Avrebbero avuto la possibilità di attaccare Tokugawa alle spalle, ma Hiroie era da tempo in combutta con Tokugawa, e si rifiutò di eseguire l’ordine, chiedendo di essere lasciato in pace in quanto stava mangiando.
Dopo la battaglia, quando l’esercito dell’Ovest si era ormai disperso, Ishida fu catturato e giustiziato insieme a un altro membro del Consiglio dei Reggenti e a un generale del Taiko che si erano opposti a Tokugawa. Molti comandanti di Ishida erano morti in battaglia, erano stati catturati o si erano arresi. Su sedici grandi daimyo dell’Ovest presenti sul campo, ben sei avevano tradito. Fatta eccezione per loro, in pochi ottennero di tornare alle proprie province dopo aver prestato giuramento di fedeltà.
Ōtani Yoshitsugu, che aveva guidato il tentativo di aggiramento, si era onorevolmente suicidato.
Inizialmente la battaglia di Sekigahara sembrò solo uno dei tanti scontri che avevano in quegli anni caratterizzato il Giappone. Perfino le dimensioni degli eserciti, che avrebbero costituito il sogno bagnato di qualsiasi generale occidentale dell’epoca, non erano particolarmente numerose se messe a confronto con l’invasione della Corea da parte del Taikō, che vi si era recato alla testa di trecentomila uomini. Le armi da fuoco erano già state adoperate in diversi conflitti minori, pertanto neanche questa fu una novità.
Cambiò tutto, invece, la nomina di Tokugawa Ieyasu a Shogun nel 1603, tre anni dopo Sekigahara. Attraverso le distribuzione delle terre di Ishida e dei grandi daimyo sconfitti, Tokugawa si assicurò il controllo e la lealtà di gran parte dei clan del Giappone. Fecero eccezione il clan Mōri, il clan Shimazu e il clan Chōsokabe, i quali, ciascuno ritenendo di essere stato ingiustamente o eccessivamente punito dopo la battaglia, collaborarono poco con lo Shogunato. Si tratta degli stessi tre clan che nel 1868 avrebbero collaborato per far cadere lo Shogunato e portare alla Restaurazione Meiji – quando si dice che la vendetta è un piatto da gustare freddo…
Ma una battaglia, una sola battaglia, aveva deciso le sorti dell’intero paese: da Shogun, Tokugawa istituiì una politica isolazionista attraverso il divieto per gli stranieri di commerciare con il Giappone (fatta eccezione, nel tempo, per olandesi e cinesi, che comunque potevano accedere solo al porto di Nagasaki) e di mettere piede sul suolo dell’Impero.
Tali divieti sarebbero durati fino al 1853, quando il commodoro statunitense Matthew C. Perry portò le sue quattro navi da guerra, le “navi nere”, nella baia di Edo, minacciando di bombardare la città se non gli fosse stato consentito di presentare una lettera del presidente USA ai delegati dell’Imperatore. Quando Perry tornò, l’anno dopo, si portò il doppio delle navi, tanto per non lasciare dubbi su chi fosse il più forte, ma scoprì che la sua prima prova di forza aveva dato gli effetti sperati, e che lo Shogun (non l’Imperatore, ma il commodoro non aveva modo di apprezzare la differenza) aveva acconsentito a tutte le richieste statunitensi.
Cominciò così il periodo bakumatsu, epoca caratterizzata da una caotica guerra civile che culminò con la Restaurazione Meiji.
La battaglia di Sekigahara è giocabile all’interno del videogioco “Total War: Shogun 2”, gestendo l’Armata dell’Ovest di Ishida Mitsunari, e in “Age of Empires III: The Asian Dynasties”.
Tutti gli eventi che portarono alla battaglia di Sekigahara sono narrati, sia pure in maniera molto romanzata, in “Shogun” di James Clavell – caldamente raccomandato.
Altrettanto meritoria è la lettura di “Vagabond”, manga di Takehiko Inoue (l’autore di “Slam Dunk“), che prende avvio proprio dalla battaglia di Sekigahara per narrare la vita di Musashi Miyamoto. L’opera procede tuttavia a ritmi lentissimi, quindi armatevi di una buona dose di pazienza.
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