“La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine.”
Piero Calamandrei, noto giurista, antifascista, membro del Partito d’Azione (di cui hanno fatto parte moltissime eminenti personalità della nostra storia repubblicana, tra cui il recentemente scomparso Carlo Azeglio Ciampi), nonché padre costituente, pronuncia questo discorso l’11 febbraio del 1950 in difesa della scuola pubblica.
Un tema ricorrente nel dibattito pubblico riguarda il finanziamento alla scuola paritaria da parte dello stato. Diverse fonti, più o meno parziali, affermano dati in apparenza contraddittori, ma la realtà dei fatti è quanto mai complessa.
Il finanziamento statale alla scuola paritaria, che allo stato attuale è quasi del tutto privo di garanzie di qualità dell’istruzione e di tutela economica e giuridica degli insegnanti, è di fatto un abominio.
Le scuole cosiddette paritarie sono state istituite da una serie di provvedimenti dei governi di centrosinistra della XIII legislatura, con l’intenzione di “espandere l’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall’infanzia lungo tutto l’arco della vita”.
La scuola privata in Italia esiste dalla notte dei tempi. Quella a guida pubblica inizia a nascere nell’età comunale ma vede la sua affermazione organica tra i primi del ‘900 e l’era fascista. Nel 1904 viene istituito l’obbligo per i comuni di costruire le scuole “comunali” elementari, che per provvedimento del governo Giolitti nel 1911 diventano materia di competenza ed amministrazione statale.
In seguito, Gentile fonderà il nostro sistema scolastico, che almeno nella scansione dei vari livelli è rimasto pressoché invariato fino ai giorni nostri.
In tutti questi istituti normativi la scuola privata viene considerata equipollente (“pareggiata”) alla scuola statale se rispetta alcune caratteristiche, tra le quali l’abilitazione per l’insegnante previo concorso statale e la garanzia della supervisione da parte del provveditorato.
Nella costituzione, all’articolo 33, i padri costituenti dispongono che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.”
Tolti sporadici tentativi da parte di qualche governo di sostenere finanziariamente la scuola privata, fino alla Seconda Repubblica non diviene nemmeno tema di discussione e il finanziamento stesso è pressoché inesistente. Per dare finanziamenti pubblici alla scuola paritaria (o parificata) “adda venì baffetto“.
Cosa vuol dire paritaria? Che rispetto alla scuola statale non è gestita dallo Stato (volendo da qualche istituzione di carattere pubblico come l’istituto civico “Manzoni” di Milano), ma ha equipollenza con la scuola statale perché rispetta determinati criteri definiti dalla legge succitata. Si differenzia dalle scuole private in senso stretto (circa 700 in Italia) per il fatto che non è necessario sostenere di anno in anno esami ministeriali per accertare l’avvenuto apprendimento degli alunni, ma solo negli stessi tempi della scuola statale, e ricevono finanziamenti statali sotto forma di sconti d’imposta o altre forme che variano da amministrazione ad amministrazione, talvolta più alti dei contributi concessi alle statali.
L’elemento di novità dei provvedimenti di riforma dei vari governi a guida PDS è sia il finanziamento della scuola paritaria (che per l’occasione cambia anche nome) che la selezione degli insegnanti, liberalizzata e senza più l’obbligo di abilitazione.
Una delle più classiche iniziative legislative all’italiana. Bell’intento ma pessimo risultato.
Molti sostengono che la scuola non-statale garantisca migliore accesso ad alcuni strumenti, come ad esempio quelli tecnologici. Lo stesso MIUR nel 2012 ha smentito questo luogo comune.
Altri sostengono che la scuola privata garantisca livelli di istruzione più alti, come sostenuto da Avvenire (che potrebbe avere anche qualche interesse per scriverlo). Uno studio redatto dalla stessa Fondazione Giovanni Agnelli qualche anno prima però affermava che “nonostante la presenza di alcune realtà di chiara eccellenza, la performance della maggior parte delle scuole non statali è deludente rispetto a quelle statali”.
Tale tesi è suffragata dalle stesse informazioni statistiche utilizzate come fonte dall’agiografia dall’articolo di Avvenire. Prendendo proprio i licei scientifici nella zona di Milano sul sito eduscopio, con un raggio di 30 km, il loro numero è di 100 esatti. Gli istituti non statali di varia natura sono 35.
Esaminando l’indice FGA (media crediti ottenuti e media dei voti universitari negli alunni provenienti da tali licei), tra quelli che superano lo score di 80 solo 4 su 16 sono non statali (il 25%). Mentre sotto lo score di 50, 9 istituti su 14 sono di natura non statale, ovvero il 64%.
Il dato incontrovertibile, confermato anche da uno studio OCSE, è che la scuola statale italiana ha performance migliori della non-statale sul piano dell’apprendimento.
Ciò non nega l’importanza di mantenere la possibilità della loro esistenza, in quanto espressione di pluralità e di sensibilità differenti. Ma non si vede il motivo di finanziare con fondi statali un servizio parallelo ad uno già erogato dallo stato stesso, per giunta di qualità più bassa.
Viene da chiedersi le ragioni di questa evidente disparità. Se vi sono alcuni istituti di eccellenza (anche se in misura inferiore ad una distribuzione statistica omogenea), a cosa è dovuta la presenza quasi doppia al fondo della classifica?
Di fatto esistono doppi standard nella scuola paritaria. Vi sono effettivamente degli istituti scolastici quasi costruiti su misura per gli alunni di famiglie più abbienti,e non si vedrebbe il motivo per il quale lo stato debba contribuire a un servizio giocoforza riservato ad una élite, tra l’altro pienamente sostenibile dalle famiglie che lo scelgono. Dall’altro gli standard bassi sono da ricercarsi in cause molto precise.
Ad esempio a metodi di scelta degli insegnanti dubbi e a pratiche al limite dello sfruttamento lavorativo. O nel fatto che molte sono viste come “diplomifici” e purtroppo la cronaca riporta spesso indagini del MIUR in merito. Attenzionare 300 scuole paritarie secondarie di secondo grado significa mettere sotto esame più del 2,3% delle paritarie, o circa il 3,7 % di tutte le scuole secondarie di secondo grado (statali e non) ovvero quasi il 18% delle scuole paritarie secondarie di secondo grado stesse.
Ma non sono solo fatti di cronaca, talvolta riportati da giornali invisi alla destra liberale che dagli anni ‘90 in poi ha fatto suo questo tema. Ci sono stati anche professori di economia a prendere posizione contraria al finanziamento pubblico della scuola paritaria. Più volte.
Ne fanno una questione strettamente di efficienza. Perché è praticamente impossibile (dato il controllo ed il pagamento statale degli stipendi) che nella scuola statale vi possano essere 19.000 dipendenti irregolari (dati Istat 2009).
Per ragioni di economia di scala, una società più grande con propaggini diffuse, la possibilità di sostituire velocemente i propri dipendenti in caso di indisponibilità, ma soprattutto con sistemi di qualità garantita e certificata all’ingresso, avrà sempre un rapporto qualità del servizio/costo più alto di una società più piccola nello stesso campo, talvolta senza standard qualitativi richiesti.
In altre parole, con l’intento di garantire un diritto di pluralità, si finisce per finanziare un sistema parallelo che presenta talvolta gravi illeciti. Il problema è da ricercarsi in una legislatura specifica carente sostenuta da una burocrazia all’acqua di rose.
Pur riconoscendo che la qualità degli istituti privati non è sempre eccelsa, molti obiettano che assorbono una quantità di domanda diversamente non assorbibile dalla scuola pubblica, soprattutto non a quel costo apparentemente irrisorio di circa 500€, contro i circa 6.000€, per studente degli istituti statali.
Ma anche qui c’è una risposta, sempre dalla Fondazione Giovanni Agnelli (che non porta esattamente il nome di un eroe comunista).
Per il computo del costo di 4,8 miliardi (riguardante solo istruzione primaria e secondaria) “non è, infatti, corretto utilizzare – come fanno il Ministro e le associazioni delle scuole cattoliche – il costo “medio” per allievo, che comprende anche tutti i costi fissi che lo Stato sostiene anche a vantaggio delle paritarie (indicazioni nazionali, valutazione e vigilanza da parte degli USR e degli uffici territoriali, esami di stato ecc.). Bisognerebbe, invece, considerare quel che gli economisti chiamano il costo “marginale”, al quale dovrebbe corrispondere l’eventuale rimborso alle scuole paritarie.”
Ma inoltre, “se anche per assurdo tutte le scuole paritarie chiudessero e lo Stato dovesse riassorbirne gli allievi – spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli – il costo aggiuntivo che lo Stato dovrebbe affrontare sarebbe molto modesto. Infatti, nel complesso della scuola primaria e secondaria italiana il rapporto fra insegnanti e studenti resta uno dei più bassi a livello internazionale (lo conferma anche il recentissimo rapporto Talis 2013, secondo il quale il docente tipo italiano insegna in una classe di 22 allievi, contro i 24 della media Ocse). Per accomodare i circa 400mila studenti di scuola primaria e secondaria in più provenienti dalle paritarie non sarebbe necessario un significativo incremento di aule e insegnanti; basterebbe aumentare di poco più di un’unità la composizione media di ciascuna classe, con qualche variazione territoriale.”
Indi per cui parrebbero illogiche ed immotivate le tesi a supporto del finanziamento statale riguardanti la disomogenea distribuzione scolastica sul territorio nazionale.
Esiste tuttavia una categoria di scuole non statali di cui non possiamo proprio fare a meno: le scuole dell’infanzia, non gestite dallo stato centrale. Rappresentano il 43% delle scuole dell’infanzia, il 71% delle scuole paritarie di ogni ordine e grado, e buona parte di esse (il 19%) è di gestione pubblica, quindi per sua natura non statale ma neanche privata. Tutte svolgono un servizio essenziale nella formazione psico-pedagogica del bambino e inoltre garantiscono la piena libertà lavorativa dei genitori nei primi anni di vita dei figli, altrimenti senza alcuna istruzione garantita fino ai 5 anni.
Ovviamente, per caratteri di complessità minore, e perché parecchie sono amministrate dai comuni, sono anche le paritarie meno costose. E assorbirebbero soltanto il 25% dei 6 miliardi di spesa in più paventati dal ministro Giannini. Che come già detto, sono già adesso pagati in larga parte da enti di carattere pubblico.
Tanti paesi europei sostengono forme di finanziamento pubblico alle scuole paritarie. Tutti, o quasi, spendono più di noi per l’istruzione. Che non è come riportano alcune fonti d’informazione al 4,6% del Pil, ma al 4,2 come sostenuto dalla stessa Istat. Su una cosa però parrebbe sbagliare anche l’Istat, ovvero sulla spesa tedesca che risulta, secondo l’Eurostat,al 4,8 % anziché 4,2 %. Ma ci sono alcune difficoltà nel definire bene politiche diverse con indicatori omogenei.
Stando ai dati espressi in un rapporto eurydice siamo uno dei pochi paesi che, al netto dell’inflazione, ha praticamente mantenuto invariata la sua spesa media per studente, infatti è praticamente sulla diagonale. Il dato viene confermato da uno studio del 2014 che evidenzia il contenimento dei costi nell’ultimo decennio, senza perdite qualitative.
Ma, contrariamente al ragionamento più logico che correlerebbe qualità con spesa, nonostante spesa per studente invariata, e contributo basso in base al Pil, siamo più avanti di Germania, Norvegia e Danimarca nel campo del raggiungimento dell’educazione secondaria di secondo livello.
Proprio quest’ultima, in molti riportano (anche Wikipedia è stata uccellata) che garantisca un finanziamento tale da rendere le scuole private gratuite, in accordo con il principio di libera scelta. La realtà è diversa. La Danimarca (come si legge a pagina 58 di questo rapporto), almeno nel 1998-99 garantiva in media l’85% del costo, ma la rimanente retta annuale di circa 8100 Corone Danesi (al cambio attuale 1100 € circa) è pagata dai genitori.
Parrebbe interessante prendere in esame la locomotiva tedesca, che sicuramente grazie anche ad un’ampia rete di università e di istituti di ricerca, finanziati copiosamente con soldi pubblici da parte dei Länder, è un’eccellenza nel campo della ricerca applicata ed è uno dei paesi più avanzati tecnologicamente al mondo, soprattutto nel campo industriale, come si può notare nel video sotto.
Tralasciando la spinosa questione universitaria, è più utile spostare il focus sulle scuole private.
Esistono e si chiamano Erstazschulen. Sono anche finanziate dagli stati-regione stessi. Ma, come si può leggere dalla Legge Fondamentale (l’equivalente della nostra costituzione) all’articolo 7, c’è sempre un controllo statale abbastanza stretto, soprattutto sulla selezione e la retribuzione degli insegnanti, che devono completare un percorso abilitativo abbastanza lungo e con varie parti pratiche, analogo a quello italiano e danese.
La differenza con noi è sempre la solita. Noi non esercitiamo alcun controllo incisivo, né sulla selezione degli insegnanti della scuola privata a finanziamento statale, non salvaguardiamo le loro tutele e infine non ci intromettiamo sulla qualità dell’insegnamento proposto. Gli altri sì.
In definitiva riguardo la scuola paritaria in Italia è evidente che:
Se a ciò si aggiunge che comporta in quasi tutti i casi (soprattutto quelli dove la qualità dell’insegnamento è più alta) oneri più o meno gravosi per le famiglie, non vi è alcun motivo ragionevole per sovvenzionarle con fondi statali.
Ciò non vuol dire che vadano abolite o vietate le scuole private, anzi, vanno tutelate in quanto espressione di esigenze più o meno condivisibili (come per quanto riguarda gli orari flessibili o una impostazione differente o più religiosa), ma sicuramente senza sovvenzioni economiche statali.
In chiusura, è interessante analizzare una recente sentenza del Consiglio di Stato, sul già accennato finanziamento previsto dalla Regione Lombardia sia alle scuole statali (per alleggerire le famiglie di contributi volontari divenuti ormai obbligatori), che alle scuole paritarie. Bisogna intanto ricordare che le regioni, fatto salvo per progetti specifici riguardanti le minoranze linguistiche, non sono in alcun modo obbligate ad erogare contributi scolastici. Proprio per questo la sentenza riconosce che con il finanziamento ad entrambi gli enti la Lombardia non viola l’articolo 33 della costituzione, ma anzi lo garantisce, poiché sarebbe infatti illecito il finanziamento della sola scuola pubblica perché la favorirebbe. Tuttavia tali contributi venivano concessi in maniera disomogenea, con chiaro vantaggio delle paritarie, e anche ciò è illecito.
Se proprio il finanziamento ci deve essere, che almeno si garantiscano stipendi equi agli insegnanti e ci si assicuri delle loro competenze. Perché alla fine il risparmio, ammesso che ce ne sia, derivante dalla scuola parificata, non è controbilanciato da un’insegnamento all’altezza. Per esperienza personale, trasferirsi da una scuola parificata ad una statale, nel passaggio all’istruzione secondaria, senza saper tradurre “cento” o “mille” dopo 5 anni di insegnamento dell’inglese, francamente è un abominio.
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