“Ovviamente si debbono trovare registri comunicativi e un linguaggio adatto ai target da raggiungere, che passi attraverso i media […] e non venga percepito come moralistico.“
-Piano Nazionale per il Fertility Day, 2016
Finito un terremoto ne abbiamo già un altro, e questa volta l’epicentro è il ministro Lorenzin che in queste ultime ore si è vista ricevere centinaia e centinaia di opinioni contrarie alla sua iniziativa denominata “Fertility Day”. Il Fertility Day, programmato per il 22 settembre, è stato ideato come un giorno in cui l’oggetto principale è fare informazione sulla natura della fertilità, come preservarla, sui rischi in sui si può incorrere e soprattutto come funziona.
Iniziativa interessante, vero?
Peccato che non sia stata comunicata in maniera opportuna. Infatti per veicolarla sono stati ideati slogan e metafore davvero poco accattivanti e dal contenuto discutibile. Che sono stati messi insieme con scientifica accuratezza per ottenere alchemicamente un risultato brutto come la morte.
Neanche a dirlo il webbe si è scagliato contro il progetto con affermazioni come “L’utero è mio e me lo gestisco io”, “Non è lo stato che decide quando una donna deve procreare”, “Tic-tac lo dici a tua sorella”, “Mio cuggino dice che prima bisogna pensare al welfer”. Sembra che sia quasi impossibile fermarsi un secondo, rilassarsi e usare un po’ di buon senso prima di rigurgitare stringhe di lettere sdegnate.
Quest’articolo ha lo scopo di proporre una chiave di lettura differente, ben diversa dall’unica visione del mondo che sta circolando in queste ore. Quindi un piccolo avvertimento: se tu, buon lettore, senti di non essere propenso a prendere in considerazione un altro punto di vista, sai cosa fare: cerca su Google “fertility day” e troverai tutti gli articoli che desideri, con opinioni precotte più comode e facili da digerire. Altrimenti continua pure a leggere e, già che ci sei, leggi anche l’opinione della nostra direttrice in merito all’argomento (qui).
Volendo entrare nel dettaglio della notizia e volendo fare un piccolo riepilogo di questa breve introduzione, troveremmo già due topic principali: l’iniziativa e la sua comunicazione.
Secondo il sito ufficiale istituzionale del Ministero della Salute, il Fertility Day ha lo scopo di “richiamare l’attenzione di tutta l’opinione pubblica sul tema della fertilità e della sua protezione”. Nello specifico vuole porre l’attenzione su un problema grave del nostro Paese, la denatalità. Questo fenomeno è in realtà la conseguenza di altri fattori che chi ha redatto il piano nazionale conosce bene. Uno tra tutti è la fertilità. Con fertilità non si intende semplicemente “posso/non posso figliare”. È qualcosa di più complesso che riguarda tutto il ciclo dello sviluppo umano. Vi sono, infatti, anche problemi che si possono incontrare fin da piccoli e che minano alla fertilità futura.
La fertilità è una condizione molto delicata soprattutto se, problemi sanitari a parte, non si prende in considerazione che ha un tempo biologico ben diverso da quello sociale odierno. Non a caso il piano nazionale dice che “Si tratta di mettere a fuoco con grande enfasi il pericolo della denatalità, la bellezza della maternità e paternità, il rischio delle malattie che impediscono di diventare genitori, l’aiuto della Medicina per le donne e per gli uomini che non riescono ad avere bambini, prima che sia troppo tardi”.
Quindi gli ostacoli alla fertilità sono molti ed è davvero molto semplice intuire lo scopo dell’iniziativa: il cambiamento di un atteggiamento.
In tutto il Piano Nazionale si mette in evidenza come non ci sia un cambio generazionale a causa dell’abbassamento della natalità, anche tenendo conto di tutte le variabili che possono intercorrere, come il welfare e il problema degli asili pubblici. Chi spara a zero non ha minimamente preso visione di questo documento, incrementando a sua volta la disinformazione. Ed è proprio questa che il piano prevede di combattere: “Occorre, quindi, che siano in primis le amministrazioni/i tecnici/gli operatori sanitari/le farmacie/gli enti territoriali a riconquistare uno spazio su questo tema, che consenta loro di non subire i processi comunicativi di massa o ancor meno opportunamente commerciali. Se possibile, si dovrebbe governare e presidiare il settore della comunicazione, legittimando altre versioni dei fatti.”
Viene anche preso in considerazione l’importanza e il peso che deve avere il progresso scientifico nell’informare non solo gli adulti, ma anche e soprattutto i giovani. Quando si parla di fertilità non significa necessariamente fare figli e farli subito. Significa prendere visione fin da ora, a cominciare dagli adulti che sono già genitori, che la fertilità dei propri figli va preservata in nome del loro futuro.
Ma se da un lato abbiamo italiani che non fanno figli perché “c’è la crisi economica”, dall’altra gli stranieri figliano che è una meraviglia. Nel solo anno del 2013 (riporta il Piano) circa il 20% dei 514.308 nati in Italia sono figli di donne (e uomini) straniere. “A diminuire sono i nati da genitori entrambi italiani (circa il 16 per cento in meno tra il 1999 e il 2012), mentre sono in continuo aumento i nati con almeno un genitore straniero, che hanno raggiunto le 105 mila unità nel 2013, arrivando così a rappresentare circa un quinto dei nati della popolazione residente”. Quindi immaginate ora perché lo Stato si sta facendo due conti? È più che evidente che a parità di crisi economica solo il segmento dei genitori italiani figlia sempre meno.
A dirla tutta, e ragionando per stereotipi, gli stranieri avrebbero anche meno accesso alle risorse economiche, vivendo in situazioni assai meno favorevoli degli italiani. Non è ridicolo che “vengono per rubarci il lavoro” e riescano anche a fare figli e a mantenerli? Che scusa hanno gli italiani? La Lorenzin ha provato a darsi una spiegazione. Una spiegazione però faziosa e confusa che, complici gli analfabeti funzionali che citano estratti a caso senza leggere il discorso nel complesso, è stata travisata.
“In sostanza, una maggiore vulnerabilità sul piano della sicurezza economica, la crisi di valori che facciano da modelli, funzionamenti narcisistici, la tendenza a privilegiare la propria realizzazione, personale e professionale, incapacità e paure ad assumersi le responsabilità genitoriali costituiscono un insieme di fattori che si rinforzano reciprocamente ed ostacolano il progetto procreativo.”
In breve, quello che si intende dire, è che la nuova generazione mette da parte anche solo l’idea di avere figli per ragioni che vanno ben oltre la possibilità di avere un mutuo in banca. È tutta una questione di atteggiamento. Le coppie moderne della generazione Y lasciano il nido familiare ben oltre la media della generazione X. Se una volta si lasciava la famiglia a 25 anni, oggi si fa la muffa in cameretta fino ai 34. E ora piantiamola di tirare fuori la crisi economica, perché ridurre un fenomeno complesso ad un evento economico è peccato di riduzionismo. Infatti, complice di questo “ritardo” è anche il mondo del lavoro che richiede maggiore competenza. Questo si traduce in maggiori anni di studi e quindi minori possibilità economiche per rendersi indipendenti (anche se questa puzza un po’ di scusa).
La vecchia generazione usciva di casa a 25 anni perché il matrimonio, molto più importante di quanto non lo sia ora, scandiva la vita delle persone definendo un rito di passaggio per l’indipendenza. Età che coincide con la curva di massima fertilità femminile (il picco della curva è tra i 20 e i 30). Se ci si rende indipendenti più tardi viene da sé il problema che sta a cuore al Ministro. Si fanno pochi figli, e pure tardi, mettendo a rischio non solo la salute del nascituro (sempre che si riesca a farne uno) ma anche la salute della madre.
E come fare dunque? Attuando politiche sul welfare? No. Cambiando atteggiamento.
Quando leggete di gente indignata sulla libertà di essere madri (ma mai padri, chissà come mai), essa fa spesso riferimento a questa frase: “Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione”. Facendo un grosso respiro, e impegnandosi nel leggere il Piano, si noterebbe che si fa riferimento a quello che un figlio può donare in termini di maturità individuale.
In altre parole, il Piano fa l’esempio (anche se non proprio pertinente) dell’esperienza di volontariato all’estero: perché se un’esperienza del genere ha un impatto positivo sulla crescita e maturità individuale (e sociale) non deve averlo un figlio? La gravidanza dovrebbe essere un fattore positivo perché aumenta le competenze della famiglia: migliore gestione delle risorse economiche, di tempo, di un altro essere umano. Ecco perché è importante un cambio di atteggiamento.
L’iniziativa è estesa a tutto il campo sociale e non solo alle donne. Come abbiamo visto è indirizzata ai giovani, ai genitori, a chi ha problemi di fertilità, ma anche e soprattutto a chi ha l’idea che la maternità sia una palla al piede: credenza del tutto fondata su presupposti falsi, veicolati anche e soprattutto dai media e dalla sfiducia che come un virus si è impossessata di zombie vomita sentenze. E il Ministro è ben consapevole di questo:
“A questo atteggiamento soggettivo si aggiunge il clima di sfiducia collettiva che nei periodi di crisi fa prevalere il “segno meno”. Sfiducia nelle istituzioni, nella rappresentanza politica, nell’amministrazione territoriale, tutte percezioni che agiscono come freni inibitori e deterrenti e che, peraltro, agiscono pure come cassa di risonanza, perché armano l’uno contro gli altri in una escalation di insoddisfazione”.
E ancora:
“Media, giornali, internet, social network, opinion leader, ma anche politica e amministrazione rivestono un ruolo fondamentale nel loro farsi parte attiva in queste dinamiche di sensibilizzazione diffusa. Così come sono determinati nell’alimentare le ansie collettive, influenzandone i processi decisionali, possono essere, anzi hanno la responsabilità di assumere un ruolo cruciale nell’interrompere le sequele negative”.
Per quanto il Piano Nazionale contenga un linguaggio facilmente travisabile continua affrontando il problema della denatalità su un piano differente. Un piano trattato forse in maniera troppo sociologica e poco psicologica, ma che ha comunque una sua ragion d’essere: la differenza di ruoli.
Sembra infatti che nel resto d’Europa vi sia una correlazione positiva tra occupazione femminile e maternità. E qui in Italia? Nel nostro Paese ovviamente no. Welfare? Ma quale welfare. Quello che ci differenzia dagli altri è che abbiamo una discrepanza notevole tra ciò di cui si occupa l’uomo e di ciò che si occupa la donna. Se nel passato quest’ultima si occupava solo della casa, ora ha un grado di istruzione maggiore e lavora, ma i figli e la casa le rimangono accollati.
Questo è in sostanza quello che intende il Piano quando dice che la donna, emancipandosi, si è fatta carico di intraprendere ruoli maschili (cosa ovviamente travisatissima da tutti). I ruoli lavorativi, più salgono di potere e catena gerarchica, più sono a misura di uomo. Uomo che non ha mai avuto l’impegno di cambiare pannolini e cucinare. Ecco perché il Fertility Day è indirizzato anche al mondo del lavoro. È l’atteggiamento che deve cambiare. Se si cambia l’atteggiamento, aumenta la favorevolezza verso la maternità in tutti i campi, e allora si che, caro lettore, il welfare è importante.
Ma come si fa a far cambiare atteggiamento? Con la comunicazione, ed è proprio questo che è andato storto.
Senza mezzi termini, quelle cartoline sono qualcosa di indecente. Metafore per immagini che rasentano la presa per il culo e slogan che inneggiano al patriottismo sono il connubio perfetto al disastro. Non lamentiamoci se poi i femministi/e all’occorrenza inneggiano alla proprietà dei propri e altrui uteri. Il messaggio del Fertility Day è importante ed è andato perso dietro un mare di guano mediatico.
Spessissimo, quando le istituzioni, o anche aziende private, hanno lo scopo di far cambiare atteggiamento per il benessere collettivo, fanno uso del Marketing Sociale. Il Marketing Sociale ha lo scopo di progettare e realizzare programmi finalizzati ad aumentare l’accettabilità di una causa/idea sociale verso uno o più segmenti di popolazione. Nello specifico si occupa di utilizzare tecniche di marketing economico per influenzare un gruppo ad accettare, modificare o abbandonare volontariamente un comportamento, con lo scopo di ottenere come risultato un vantaggio per gli individui singoli o la collettività.
Questo piano si compone di 4P: progettazione del Prodotto sociale (in questo caso il cambiamento di atteggiamento nei confronti della natalità, ecc.), il Prezzo (in termini di costo economico e psicologico che gli individui devono “pagare” per cambiare atteggiamento), Placement (rendere il prodotto accessibile, in questo caso, con una giornata dedicata con stand e professionisti) e Promozione del prodotto sociale (di cui fanno parte gli sponsor, il contenuto del messaggio e i canali di comunicazioni usati). Ed è proprio quest’ultima fase che sembra essere il grande problema.
Attraverso quelle cartoline non viene tramesso un messaggio sereno che guidi ad una nuova visione del problema, accompagnandolo da sponsor rassicuranti, dicendo come comportarsi, accrescendo l’informazione di chi legge o utilizzando metafore in grado di abbattere le barriere della diffidenza. Fa semplicemente tutto il contrario, instillando ansia, antipatia e un patriottismo velato del tutto fuori luogo.
Una possibile spiegazione di questo ritorno a QVUANDO C’ERA LVI, oltre ai bei ricordi di quando si partiva in orario con il trasporto ferroviario, potrebbe ricadere nel non essere riusciti a utilizzare una scoperta scientifica importante: l’uso del patriottismo per far passare messaggi stereotipicamente di sinistra a persone di destra. A tal proposito uno studio ha dimostrato che per far capire una volta per tutte agli americani che il climate change è un problema serio, deve essere passato come un problema nazionale. Per esempio “L’ambiente è nell’interesse della patria”, “Un buon americano fa la raccolta differenziata”. Nel contesto italiano i risultati sono quelli che vediamo.
Giunti alla conclusione diventa più facile comprendere perché e come ha fallito l’iniziativa. Però, non tutto è perduto. Infatti il Marketing Sociale prevede che ci sia un controllo continuo sul processo di comunicazione in modo da modificarlo in corso d’opera. Con metafore accattivanti e ironiche, un pizzico di scientificità e la scelta di target diversi con linguaggi diversi potrebbero fare davvero la differenza. Ma i problemi, purtroppo, non sono finiti. Quando c’è una comunicazione fallace c’è sempre qualcuno che la riceve. Sì, mi sto riferendo a tutti quelli che incitano all’indipendenza nella scelta di fare figli (rimanendo in un registro contenuto).
Come abbiamo visto, con “fertilità” si fa riferimento ad un contesto molto più ampio, e considerarlo alla stregua di “Fai figli! Falli ora!” è a dir poco riduttivo. Nessuno obbliga nessuno. Il messaggio è semplicemente “Fare figli non è poi così male. Perciò prendi in considerazione, per tempo, della cosa, in modo da non dovertene pentire in futuro”. I figli si fanno insieme e non è solo la donna ad avere potere decisionale al riguardo, così come anche il padre ha dei diritti nell’assentarsi dal lavoro per paternità. Ma questo il 50% delle donne non vuole capirlo. Come riporta il Piano Nazionale, se da una parte i ruoli sono ancora sbilanciati, dall’altra non c’è l’accettazione per la donna che anche l’uomo possa occuparsi della salute fisica e mentale del figlio.
Teniamo ben presente che quando si parla di sessismo, si parla necessariamente di due sottoinsiemi: il sessismo ostile e il sessismo benevolo. Il primo è tipico di persone che ritengono che la donna debba stare al proprio posto, in cui vi è una svalutazione della donna; il secondo invece è la sua protezione, nel rendere giustificabile il ruolo subordinato della donna considerandola come speciale e degna di attenzioni particolari (come per esempio la galanteria di un uomo nell’aprire la porta). La psicologia, oltre a dimostrare costantemente che ogni comportamento o pensiero è sostanzialmente sbagliato, mette in evidenza come se da una parte abbiamo l’uomo che non si prende le sue responsabilità nei lavori di casa, dall’altra abbiamo la donna che si ritiene la sola e l’unica detentrice della maternità.
Ma come si fa a cambiare la situazione? È molto semplice: sedete, rilassate le redini dei vostri utero e cervello e rileggete l’articolo da capo.
Con una laurea e tre quarti in psicologia sociale mi diletto nella pasticceria e nel scrivere racconti sconclusionati. Il mio sogno è avere un grado di autorevolezza tale da permettermi di dire a tutti che i loro ragionamenti sono sbagliati senza farmi picchiare. Ecco perché scrivo per IMDI.
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