Secondo il grande maestro Alfred Hitchcock il cinema era la vita con le parti noiose tagliate. Ecco,
Linklater, nella sua ultima pellicola Boyhood, fa esattamente il contrario.
In molti, immagino, conoscono l’enorme impresa che c’è dietro a questa apparente semplice
pellicola, ma per i pochi che ne sono ancora all’oscuro, mi appresto a spiegarla: il film è stato girato
in 12 anni. Il regista Richard Linklater non ha voluto ricorrere al trucco per invecchiare i suoi
attori, né ad effetti speciali, né a diversi attori per interpretare le diverse fasi di vita di Mason, il
bambino protagonista della storia. Ha voluto, invece, che fosse il tempo a lasciare i segni sul volto
dei propri personaggi. Dall’estate del 2002 in poi, Linklater ha chiamato ogni anno lo stesso cast e
la stessa troupe, per girare poche scene del film per volta, fino a concluderlo definitivamente
nell’ottobre del 2013.
Inutile dire che quando ho iniziato a leggere le prime informazioni su questo film, il mio interesse è
schizzato alle stelle e già lo annoveravo nei pochi film moderni degni di entrare a far parte della
storia del cinema, degni di essere studiati nei manuali per i futuri aspiranti cineasti, una gradita
novità, in un epoca caratterizzata da blockbuster e reboot di fumetti (ma quante volte lo vogliamo
far morire il povero zio Ben?)
Poi l’ho visto.
Mi rendo conto che il film abbia avuto un grande successo di critica, che Linklater si rotola nei
premi e nei soldi alla faccia di questa povera ragazza delusa, ma Boyhood è per me la dimostrazione
che una bellissima idea e una produzione eccellente non sono niente senza una trama. Una
sceneggiatura. Un messaggio. Boyhood non parla di niente. Tra guardare Boyhood e una collezione
qualsiasi di filmini amatoriali di famiglia (non quel tipo di filmini, sporcaccioni) non cambia niente.
Difetto principale, il protagonista, simpatico ed espressivo quanto un comodino, incapace di trasmettere un minimo di empatia, apatico a qualsiasi cosa gli accada intorno. Viene da chiedersi se
Ellar Coltrane, in questi 12 anni che sono serviti alla realizzazione del film, una lezione di recitazione l’abbia mai seguita, anche solo spiando dallo spioncino della porta. Non che gli altri personaggi abbiano chissà quale caratterizzazione originale: Patricia Arquette è una madre divorziata e stressata che non si sa scegliere un marito decente che sia uno (che novità) e il padre di Ellar è un bambinone irresponsabile che alla fine metterà la testa apposto (colpi di scena al cardiopalma). Il resto è un insieme di vicende scollegate che raramente trovano una conclusione (spoiler alert: Arquette e prole riescono a sfuggire al secondo marito violento di lei, ma i poveri figli di questo qua che rimangono con lui? Non se ne sa niente per il resto del film, né i protagonisti sembrano minimamente interessati al futuro di quei poveri ragazzi rimasti a subire maltrattamenti da quell’ubriacone) e che raramente riescono a dare un contributo a quello che dovrebbe raccontarci il film: la crescita intellettuale, personale e sociale di Ellar. Tutto questo condito con dialoghi estremamente ordinari e piatti, una fotografia insipida e una colonna sonora che non lascia il segno.
Per quanto possa sembrare poetica e potente l’immagine di un corpo che invecchia sullo schermo,
non basta per poter dire di “aver raccontato la realtà”. E per quanto possa sembrare brutto a dirsi,
non sono i momenti di quotidianità e banalità che rendono la realtà, la vita vera, interessante da
raccontare.
Ma forse sono io a non aver colto la poesia dietro questo elogio alla noia. Sarà, io torno a guardare
Hitchcock.
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