13 agosto 2013. Ultimo giorno del mio viaggio in Giappone, bancone del bar Kaffè di Itame, ennesimo giro di Suntory. Il mio carissimo amico “Tonic” Yamamuro mi compila una lista di anime che devo assolutamente guardare al mio ritorno. La leggo distrattamente, l’occhio mi cade su un certo “Ano hi mita hana no namae o bokutachi wa mada shiranai”.
“Hey what’s this thing with the long and weird name?”
“Actually you can just search it as “AnoHana”, it’s easier.”
“AnoHana? Is that a hentai? Tentacles, rape and shit like that?”
“Not at all, it’s actually a really funny but also sad story, it really made me think about my childhood, you have to watch it, it made me cry a lot”.
Considerato che Tonic è un ragazzone (non solo per gli standard giapponesi) che macina un drink dietro l’altro, parla ininterrottamente di cazzate e fuma un pacchetto al giorno, immaginarmelo che piange pensando alla sua infanzia risultava abbastanza comico. Comunque, alcuni mesi dopo mi ricordai di guardare questo AnoHana. Capii a cosa si riferiva Tonic: già la sigla era stupendamente malinconica. Non mi capitò di piangere fino all’undicesima e ultima puntata però, lì sfido chiunque.
Con un titolo lunghissimo traducibile in italiano, secondo le anime pie di Wikipedia, come “Ancora non conosciamo il nome del fiore che abbiamo visto quel giorno” (poi ne capirete il senso), AnoHana è un gioellino dell’animazione nipponica contemporanea (uscito nel 2011), che probabilmente i giappofili (non fatemi usare la parola “otaku”, vi prego) più duri e puri conosceranno già benissimo ma che molti non avranno mai sentito nominare. Sai, le serie coi titani che rompono le mura e sbranano le mamme del protagonista tendono a diventare molto più popolari di quelle che parlano sempre di mamme del protagonista morte, ma per una pallosa malattia.
Comunque, due righe sulla trama. Jintan, insieme alla gioviale e kawaissima Menma e altri quattro amici, passano una stupenda estate d’infanzia fino a quanto Menma non muore affogata. Alcuni anni dopo la compagnia di “Super Peace Busters” non esiste più, i cinque superstiti hanno preso strade separate, incarnando ruoli tipici da adolescenti giapponesi come lo studente di successo, la tipa perfettina e introversa, la ragazza frivola, il tipo strambo e un po’ pervertito. Jintan, ritiratosi dalla scuola, vive un’esistenza di inenarrabile amarezza e rimpianti, quando gli capita di incrociare i suoi vecchi amici viene ignorato o si vergogna nascondendosi. A rimescolare le carte arriva una specie di fantasma cresciuto di Menma, visibile solo a Jintan; Menma dice che deve ancora succedere qualcosa per permetterle di andare in paradiso, ma da brava ragazza kawaii ma sbadata non ha idea di cosa possa essere. Ciò sprona Jintan a tirare fuori le palle e a radunare i “Super Peace Busters” per svelare il mistero. Con il passare degli episodi, si scopre che tutti e 5 sono segnati dal senso di colpa, credendo che la morte di Menma sia stata colpa loro, ma dopo vari sbattimenti e peripezie riusciranno con molta fatica a mettere insieme i pezzi della loro amicizia. Sappiate che il finale vi farà perdere qualunque dignità e piangere come donnicciuole, quindi non guardatelo in treno.
Con questi presupposti, AnoHana può sembrare un dramma pompatissimo, o qualcosa di epico. Non è nulla di tutto ciò, la trama di AnoHana è di fatto linearissima, i personaggi sono dichiaratamente dei cliché ed è possibile capire i vari triangoli e quadrilateri amorosi dalla prima puntata. Cosa rende allora AnoHana così coinvolgente? Come fa una storiella così semplice a farti piangere come un concorrente del Grande Fratello? Ma è proprio la semplicità la chiave, sciocchini. Tutto in AnoHana, dalle musiche, sigle comprese, all’ambientazione da periferia giapponese, al character design fanciullesco, allo sviluppo della trama etc. è incentrato su un unico tema predominante: la nostalgia dell’infanzia. Le due dimensioni temporali di cui si alterna la narrazione sono infatti un presente inquieto e infelice e un passato idilliaco mitizzato, con lo spartiacque della morte di Menma. La “base segreta” in cui si ritrovavano i Super Peace Busters è il fulcro di tutta la narrazione della dimensione “passata” e lo diventa gradualmente anche di quella presente, con i personaggi che loro malgrado, quasi inconsciamente, finiscono per tornare quotidianamente a trovarsi lì, prima tormentati dal fantasma di Menma che li perseguita e poi ritrovando almeno in parte quell’unità di spirito che puoi avere solo con gli amici di infanzia.
AnoHana è una storia contemporanea e fa riferimento a molti riti e sottintesi culturali tipici del Giappone di oggi, dall’alienante realtà scolastica al modo di interiorizzare il lutto, e come tale è senz’altro più fruibile da chi ha già una certa cultura in fatto di giapponesate. Tuttavia, la semplicità di cui sopra e la cura con cui viene raccontata in modo genuinamente allegro una storia a dir poco deprimente lo rendono fruibile a tutti. Come ho scritto nell’introduzione del mio ebook “Anni ’90 – Dagli 883 a Carmageddon”, solo i bambini soldato e i figli di vegani non idealizzano la proprio infanzia. Tutti noi abbiamo una base segreta che magari affianchiamo in macchina tutti i giorni senza pensarci, poi ci viene voglia di tornare a visitare nei momenti più assurdi, tutti noi abbiamo amici d’infanzia che abbiamo perso per strada e che ricordiamo non per gli aggiornamenti su Facebook, ma per i mitici ricordi che tutti gli sbattimenti della vita fanno di tutto per nascondere ma non riusciranno mai a occultare completamente. AnoHana, oltre a farci consumare pacchetti di fazzoletti in modo differente da quello convenzionalmente associato all’animazione nipponica, riesce appunto nel nobilissimo intento di far risvegliare, sia anche per pochi secondi, quel bambino dentro di noi che continuerà sempre ad accompagnarci, che lo si voglia o no.
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