Quanti di voi sanno dove si trova l’isola di Futuna? Pochi sicuramente. Ma non è difficile cercarlo su Wikipedia. Allora vi faccio un’altra domanda, cosa può voler dire “creatività culturale”? E cosa c’entra con quest’isola? Andiamo per gradi.
Faccio innanzitutto una premessa: per la stesura di quest’articolo mi sono rifatto principalmente ad un libro (che vi consiglio caldamente nel caso di interessasse l’argomento): “Oceania: isole di creatività culturale” di Adriano Favole.
Ma iniziamo dicendo che Futuna (insieme alla vicina Wallis) è un territorio insulare francese nel bel mezzo dell’Oceania. La sua colonizzazione è iniziata con l’arrivo dei missionari cattolici della Società di Maria nel 1837. I futuniani la presero così bene che, nel 1841, finirono per ammazzare un missionario (un certo Piere Chanel). Ciò però condusse gli ambienti religiosi europei ad accelerare l’evangelizzazione dell’isola. E funzionò. Fatto sta che l’assimilazione del cattolicesimo fu così forte che la Francia, nel 1887, dichiarava “Protettorato” l’isola proprio in virtù della forte presenza religiosa. Inutile aggiungere che la funzione di rappresentare lo Stato sull’isola venne affidata ai missionari, lasciando così una forte impronta cattolica in campo educativo, economico e politico.
Molti di voi si staranno sicuramente dicendo: “Ecco, il tipico esempio di genocidio culturale.” Ma se vi dicessi che l’immagine del nativo sconfitto dalla civiltà europea è un mito etnocentrico creatosi grazie alla visione troppo pessimistica di tutta una serie di antropologi del XIX e del XX secolo? Sicuramente molte culture indigene hanno subito enormi danni da parte dell’invasione europea e non si sono più risollevate. Ma ci sono anche esempi contrari. E la civiltà futuniana ne è sicuramente uno.
Nel 1959 wallisiani e futuniani decisero, tramite un referendum, di divenire cittadini francesi dando così vita al Territorio d’Oltremare francese di Wallis e Futuna. Tuttavia la scelta di restare sotto la Francia non ha significato assimilarne ciecamente la cultura. Fatto sta che oggi sull’isola c’è una compresenza equilibrata di istituzioni:
a) Coloniali (un prefetto nominato dal Consiglio dei ministri a Parigi è definito dallo statuto il “capo supremo” della Collettività, racchiudendo così forti poteri economici e politici);
b) Democratiche (l’Assemblea del Territorio eletta dai futuniani a suffragio universale);
c) Tradizionali (sull’isola convivono anche poteri locali, rappresentati da due re e vari portatori di titoli);
d) Religiose (rappresentate oggi da una Chiesa locale formata da sacerdoti nativi del Pacifico);
La creatività culturale sta proprio in questo: mettere in discussione il proprio passato (pur non negandolo) rapportandolo al presente per dare vita ad un futuro migliore. Infatti non sono poche le modifiche riportate ai riti locali o a quelli acquisiti.
La messa domenicale, per esempio, inizia verso le 5:30 del mattino. Tuttavia la sua preparazione comincia sin dal venerdì precedente, quando le donne iniziano a raccogliere i fiori per i collier e le parti incaricate per l’animazione del rito iniziano a preparare le danze e i canti.
Ma questo è il meno, perché anche l’iconografica delle chiese stesse è stata rivisitata. Insieme alle Madonne e i santi, a decorarne le mura ci sono scolpiti pure antichi guerrieri pagani. Non solo, ma sull’altare da una parte troviamo il crocefisso, dall’altra un’imponente ascia da guerra. Questa sta a rappresentare il martirio di P. Chanel. Oltre a ciò, il rito stesso viene rivisitato dalla compresenza di tre lunghe danze e il dono dei collier di fiori a Cristo (che, tra l’altro, viene rappresentato in alcune parti dell’isola con un gonnellino di stoffa di corteccia ai fianchi).
Ma passiamo ora alla pratica che ci può sembrare più estranea (per come viene svolta sull’isola): quella del dono. Questa sussiste nei piccoli gesti della realtà quotidiana e nei riti religiosi, ma soprattutto nei riti collettivi. Infatti tramite i kotoaga (grande cerimonia durante la quale ogni cittadino depone il suo dono in uno spazio comune) vengono supportati due pilastri di ogni cultura: la sussistenza economica e l’equilibrio sociale.
– La sussistenza economica perché i beni depositati (beni di consumo da parte dei contadini, soldi da parte degli stipendiati) servono da una parte a costruire edifici di culto, dall’altra a sostenere le cooperative locali.)
– L’equilibrio sociale perché:
a) il dono serve a conferire prestigio alla persona che lo offre. Più importante è il bene, maggior importanza assume la persona;
b) il kotoaga serve agli aspiranti capi per fronteggiarsi. Qui tuttavia subentra anche un altro mezzo: la cultura orale (sulla quale Futuna è basata). Insomma un gran donatore che abbia anche buone capacità oratorie può fare passi da gigante nella scalata sociale;
c) queste pratiche servono anche a far mantenere il rapporto con la terra. Vengono infatti donati solo prodotti locali. Oltre a ciò questa pratica è molto importante per le persone senza particolari aspirazioni poiché a loro rimane la soddisfazione di vedere esposti i prodotti del proprio lavoro sulla piazza del villaggio;
d) il kotoaga costruisce ordine e gerarchie nel mondo degli uomini e dei loro prodotti;
Non stupirà quindi che a Futuna il libero mercato è solo una piccola parte dell’economia locale, poiché (come fece notare Paul Van del Gjip durante la sua ricerca di campo) “Vendere è segno di povertà, comprare fonte di vergogna.”. La maggior parte dei negozi offre solo prodotti non reperibili sul luogo (anche se il discorso in realtà è più complesso). Non ci si stupisce neanche a sapere che il PIL pro capite è di 12.640 $ (2005), tutt’altro che basso considerando la grandezza, la posizione dell’isola e la forma locale di welfare state.
Concludo con con tre semplici domande: anche noi abbiamo le basi per far sopravvivere la nostra cultura alla globalizzazione? Cos’è rimasto veramente del nostro passato? E cosa rimarrà del nostro presente?
Il mio amore per la cultura europea mi dice di preservare il mio buon umore e non pensarci. Non anche oggi almeno.
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