Ci sono persone che sono entrate in ferie, stronzi che ancora lavorano, gli immancabili studenti delle superiori che frignano per la maturità, gli studenti universitari che prendono antidepressivi. E poi c’è il mio piccolo fratello che si alza alle tre di pomeriggio, accende il PC e gioca tutto il giorno. Dunque mi sono chiesto come percepiamo io e lui il mezzo videoludico, o meglio qual è la differenza tra la mia generazione e la sua nel trattare con i videogiochi.
Io sono un post-ventenne figlio di due tizi che in gioventù furono appassionati di videogames, dunque mi trascino dietro l’eredità di quello che fu il mondo dei videogiochi di fine anni ottanta-primi novanta. Gioco da quando ho memoria, ho passato gran parte della mia infanzia e adolescenza a fondermi le retine, da solo o in compagnia, a casa come in sala giochi. Mio fratello, se possibile, è ancora più infognato di me. Già nell’utero costringeva mia madre ad insane sessioni notturne alla Playstation. Nel momento in cui è stato in grado di afferrare un gamepad non lo ha più lasciato. La differenza di età tra me e lui non è così elevata ma ovviamente il mondo a cui entrambi facciamo riferimento cambia a velocità più rapide di quelle dello sviluppo umano, per non parlare di quando internet è entrato a far parte della vita di entrambi. Dov’è dunque la differenza tra come un ragazzetto appassionato di videogiochi si interfacciava ad essi negli anni ’90 e come ci si interfaccia adesso?
La prima parola che mi viene in mente è accessibilità: di informazioni, di contenuti, persino del gioco in sé. Ammettiamo che io volessi comprarmi un gioco, ammettiamo anche che facessi qualche lavoretto o mettessi da parte i soldi in qualche modo: avevo sempre bisogno di essere portato al negozio, o di prendere un bus, insomma in qualche modo dovevo fisicamente recarmi in un posto, acquistare una copia fisica, collocarla fisicamente a casa. Questo poteva generare una serie di conseguenze (non a casa mia): il gioco poteva non essere apprezzato dai genitori, o addirittura poteva esserne sabotato l’acquisto; il negozio poteva averlo terminato, vanificando così il viaggio. Non tutti avevano un negozio vicino casa. Una volta comprato il gioco, a meno che non si fosse provata qualche demo o si fosse letto un articolo sulle riviste del settore, che tra l’altro erano paracule come le recensioni sui siti del settore di oggi, si poteva rimanere discretamente inculati. Questo se si aveva la potestà di comprarsi i giochi da soli. Si poteva sempre rimanere fregati dai genitori che prendevano fischi per fiaschi o si presentavano gioiosi con titoli orripilanti (again, non a casa mia).
Oggi i genitori continuano ad essere distanti dal mondo videoludico ma lo ostracizzano un pelino meno. Quello che è cambiato è semplice: un tredicenne a caso può, con la sua cara postepay, eseguire l’acquisto online, dopo aver visto il trailer, letto le recensioni (di altri giocatori), magari aver visto il gameplay su youtube. Se passiamo poi ai Free to Play, ai MMORPG, ai MOBA capiamo facilmente che noartri vecchi potevamo anche avere la sala giochi sotto casa, ma con una linea internet decente un ragazzino di oggi, in proporzione, sarebbe stato Dio.
E qui veniamo al secondo punto, ovvero la connessione. Per me i videogiochi erano un rituale solitario, da condividere con pochi altri eletti. Il massimo della socialità poteva essere una partita con lo schermo splittato in 4 o fare i turni al cabinato di Tekken 2 o di Metal Slug X. Ci avessi mai rimorchiato una ragazza con le mie vittorie. Si giocava al buio, si giocava sotto le coperte, si rinunciava a qualcosa, in primis ad una qual certa forma di accettazione sociale. Era un po’ come entrare in una setta segreta, in un ordine di cavalieri, da cui si usciva solo con la morte o con il potere della Pheega (a cui tra l’altro si rinunciava implicitamente, ma quando inizi da bambino non sai dove ti stai infilando).
Se poi eri un giocatore PC eri ancora più solitario, i LAN parties come li intendiamo oggi non erano così abbordabili. Il cavo Game Link per il Game Boy era un oggetto di potere, se addirittura avevi un Multitap venivano costruite case sugli alberi in tuo onore. Da un certo punto di vista, però, eravamo più testa di cazzo. Piuttosto che giocare insieme al fratellino facevamo finta di attaccargli il gamepad e lo prendevamo bellamente per il culo. Adesso invece giocare è un fenomeno prima di tutto sociale. Si condivide l’esperienza di gioco non soltanto perché si gioca più facilmente online, ma perché tutti gli aspetti di un gioco finiscono in rete. Si creano meme, fanart, fanfiction e molto altro sui giochi, si fanno community, vengono pubblicate delle mod, c’è gente che fa i soldi con i video sui gameplay, che è abbastanza vicino a “da grande come lavoro voglio giocare ai videogames”.
Insomma, se si gioca non si è quasi mai soli, si è sempre connessi a tanti altri giocatori, simili a o totalmente diversi da noi, il che aiuta ad abbattere le barriere di età e genere, che pure persistono. Così un ragazzo di oggi non si sentirà isolato o emarginato, ma integrato in un organismo vario e pulsante. D’altro canto può capitare che per giocare con xXx_BlUnTWeeD69SnIpEr_xXx dall’altra parte del mondo si ignori chi sta in casa, che forse è il motivo per cui stiamo giocando con il tizio sopracitato.
Il terzo e ultimo punto che volevo affrontare, benché ce ne siano molti di più, è l’aspetto che invece non è cambiato: il divertimento. Ci terrei a precisare che le speed run si facevano anche prima, il pro che sapeva tutte le mosse o che studiava il gioco fino a scoprire tutti i glitch c’era già prima, le run al 100% esistevano già. Il divertimento in sè è rimasto invariato: ci si divertiva prima, ci si diverte adesso. La tipologia di videogioco che ci piace, che ci ha cresciuti e tenuto compagnia, è un fattore culturale. Il periodo storico, l’opinione pubblica, le innovazioni in ambiti tecnologici affini; tutti questi aspetti e altri ancora influenzano il modo di fare, giocare e concepire in generale i videogames. Per cui, giocatori più anziani di me storsero il naso di fronte a certe innovazioni come io lo posso storcere adesso. È un impatto tra due mondi differenti: non possiamo pretendere che tutti gli adolescenti di oggi possano capire il modo di videogiocare anni ’90, che era più stronzo e magari più soddisfacente, ma anche meno ampio, più grossolano, meno connesso; forse più puro e ingenuo, meno intaccato dalle logiche dell’industria, più godibile in senso immediato.
Da parte mia, sono contento del periodo che ho vissuto e delle evoluzioni a cui ho assistito, sia in campo tecnico che nel modo di vedere i videogiochi. Se vogliamo fare un paragone storico, prima eravamo nel tardo Medioevo, in cui ancora si tenevano bestiari e si vociferava di forze magiche e che se finivi Super Mario 64 in una notte di luna piena con Saturno in Cancro sbloccavi Luigi fidatimel’hadettomiocuggino. Ora possiamo forse dire di essere nel Rinascimento: proiettati verso nuove soluzioni, ma ancora ancorati a vecchi miti, vecchie concezioni che ci ostiniamo a tenere, rivestendole di una patina di novità. Difatti campiamo di remake e reboot.
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